Until Dawn – Fino all’alba
La recensione di Unitl Dawn, di David F. Sandberg, a cura di Roberto Baldassarre.

Tra i più apprezzati survival horror, per grafica e storytelling, il videogame Until Dawn, uscito nel 2015, fu creato da Supermassive Games per la Sony Computer Entertainment, che lo rese esclusivo per la Playstation 4. Un gioco che attinge da decenni di horror slasher, strutturato in ben 11 complessi capitoli, che è un movimentato – e terrorizzante – compendio videoludico nel quale il giocatore ha il difficile compito di portare alla salvezza l’assortito gruppetto di personaggi intrappolati in un incubo. Già di suo spettacolarmente cinematografico, con tanto di Spin-Off (Until Dawn: Rush of Blood, 2016), prequel (The Inpatient, 2018) e versione rimasterizzata/ottimizzata (2024), era praticamente inevitabile che non si cercasse di trasporlo al cinema. L’unico cambio, certamente non di poco conto, quello di riadattare lo storytelling ludico in trama cinematografica efficiente.
Sceneggiato da Blair Butler e Gary Dauberman, nuovi “autori” dell’horror, Until Dawn – Fino all’alba (Until Dawn, 2025) di David F. Sandberg è al contempo un soddisfacente divertissement quanto un horror già visto (e rivisto). Ci sono i canonici topoi, che vanno dai luoghi (casa sperduta, profonda provincia americana) all’eterogenea comitiva che deve sopravvivere, passando per l’usuale folle assassino (facilmente identificabile) o l’orrorifico found footage (i filmati salvati sullo smartphone) reso celebre dalla Blumhouse. A ciò si aggiungono diverse battute umoristiche da teenager, per smorzare i toni cupi e simultaneamente parodizzare il genere (con tanto di battuta metacinematografica).
Un sommario cinefilo che va da Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974) di Tobe Hooper fino al summenzionato stile – abusato – della Blumhouse; con vieppiù un rimando esplicativo al ben più riuscito Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) di John Carpenter. Ma come scritto poco sopra, il medesimo videogame attinge dal glorioso cinema di genere. Quello che però rende piacevole Until Dawn alla visione è che fortunatamente non lesina sui momenti slasher e gore. Vistoso sangue che imbratta pareti e persone; corpi martoriati ben visibili e in alcuni momenti spazi realmente claustrofobici. In tempi di forzato politically correct, di appianamento morale e anche di produzioni che guardano più al piazzamento del prodotto sulle piattaforme che alla sala cinematografica, è una sorpresa che ci sia un horror così sanguinolento.
E che cerchi di essere anche disturbante come le rinomate pellicole del passato. Peccato che questa spiccata violenza “d’antan” non sia accentuata da una altrettanto “filologica” messa in scena. La regia di David F. Sandberg, anch’egli nuovo – e apprezzato – autore dell’horror contemporaneo, si accontenta di una fotografia (a cura di Maxime Alexandre) ampiamente scura ma purtroppo totalmente patinata, quasi piatta nei suoi toni, non dissimile dal videogioco. Tocco finale che rispetti, la scena finale fa presupporre che, se il film andrà bene (buon incasso), ci sarà un seguito (o un prequel?).

di Roberto Baldassarre