Black Bag

La recensione di Black Bag, di Steven Soderbergh, a cura di Francesco Parrino.

L’agente dell’MI6, George Woodhouse (Michael Fassbender) è chiamato dal suo superiore, Meacham (Gustaf Skarsgård) per indagare sulla fuga di notizie di un software di criptaggio dal nome in codice Severus. Tra i sospettati ci sono i colleghi Freddie Smalls (Tom Burke) e James Stokes (Regé-Jean Page), la specialista in immagini satellitari Clarissa Dubose (Marisa Abela), la psichiatra dell’agenzia, la Dottoressa Zoe Vaughan (Naomie Harris), e la stessa moglie di George, agente come lui, Kathryn St. Jean (Cate Blanchett). Dopo un’enigmatica cena il loro destino cambierà per sempre. Questo è Black Bag, trentacinquesima pellicola di Steven Soderbergh che vedremo al cinema con Universal Pictures dal 30 aprile. Un film per cui contare i giorni dell’uscita in sala, a partire dal firmatario dello script alla base, il veterano David Koepp, che ne rincorre la realizzazione da quasi trent’anni.

Precisamente dalle ricerche compiute per lo script del primo Mission Impossible nel tentativo di comprendere l’equilibrio che c’è tra vita lavorativa e privata in un agente della CIA. Si rese immediatamente conto di quanto la vera missione impossibile fosse mantenere una relazione stabile in un mestiere che rende, per deformazione, facili a mentire e a tradire per poi nascondere abilmente le tracce. Da qui l’intuizione di incanalare lo stato d’incertezza della vita da spia in una più che tipica e stabile dinamica matrimoniale alla base di una sola e semplice domanda esistenziale che di Black Bag è il corpus filmico: «Quando puoi mentire su tutto, come fai a dire la verità su qualsiasi cosa?». Su di essa, infatti, Soderbergh disegna una riflessione sulla natura umana, il senso di fiducia e lo stato di salute delle relazioni lasciando sullo sfondo l’amore come motore vitale, per intrecciarlo saldamente a una radicata componente da spy-drama che ruota intorno al significato e alla rilevanza della scelta di parola del titolo.

Quella black bag identificativa di quella specifica borsa nera che nella tradizione letteraria di Ian Fleming e John LeCarré veniva utilizzata dalle spie per tenere al sicuro i documenti confidenziali e che nella finzione scenica di Black Bag è anche la parola in codice che va a identificare i segreti operativi dei coniugi Woodhouse tra missioni e ossessioni. Per Soderbergh diventa l’opportunità per intessere uno straordinario doppio-triplo gioco spionistico caratterizzato di eleganza registica, movimenti di camera fluidi dal ritmo armonioso e tutto avvolto in dense atmosfere sensuali che conferiscono alla narrazione uno stile sobrio ma deciso. Non aspettatevi, in tal senso, un action adrenalinico con Black Bag. Non è un nuovo Mr. & Mrs. Smith della premiata coppia Brad Pitt-Angelina Jolie con Doug Liman alla regia per intenderci (e che citiamo non a caso visto che quest’anno ricorre il suo ventennale). Una sola esplosione, un unico proiettile sparato. Quello di Soderbergh è un film ragionato, calcolato in ogni sua componente, teatrale nella sua impostazione, tutto percorso di venature hitchcockiane e profondamente dialogico che trova negli scambi di parole, azioni ed emozioni dell’inedita coppia Blanchett-Fassbender il suo perfetto cuore narrativo. Per certi versi si potrebbe definire Black Bag come l’Out of Sight della sua generazione, specie nel modo in cui il genere cardine – l’action nel 1998, lo spy movie nel 2025 – va a intrecciarsi con la componente romantica attraverso declinazioni di registro antitetiche come possono esserlo soltanto la commedia e il dramma. Nel mezzo il grande cinema di Steven Soderbergh che proprio come il buon vino più invecchia più migliora e che non ha alcuna intenzione di smettere di meravigliarci


di Francesco Parrino
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