The Brutalist
La recensione di The Brutalist, di Brady Corbet, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

The Brutalist, di Brady Corbet, distribuito da Universal Pictures e in uscita il 23 gennaio 2025, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Brady Corbet continua a raccontare il Secolo scorso attraverso i rapporti di potere tra committente, artista e pubblico. The Brutalist parte dall’immagine della Statua della Libertà rovesciata per rivelarsi da subito, sin dal sontuoso piano-sequenza iniziale, un affresco magniloquente in forma di enciclopedia del Novecento: l’Olocausto, le correnti artistiche e architettoniche, le droghe, la storia del Cinema e delle forme visive. Un viaggio che passa dall’incubo del passato all’allucinazione di massa verso il futuro».

La recensione
di Marco Lombardi
Come si può catalogare un’opera che ti fa sembrare storicamente esistito ciò che è mero frutto della fantasia? Non di certo un mockumentary, perché la componente di fiction – a livello formale e interpretativo – è ampia e non occultata, ma neanche un mancato documentario, trattandosi di un genere sempre più terreno di conquista del fake, se non addirittura della propaganda: semplicemente un film sentito, cioè sincero, che riesce a proiettare certe verità storiche su dei personaggi (ispirati dal romanzo La fonte meravigliosa, di Ayn Rand) che rivesteno i tratti dell’universalità.
Insomma, l’architetto ungherese László Tóth non è mai esistito, ma purtroppo è esistito l’Olocausto dal quale è riuscito a salvarsi, ed è esistita (e ancora esiste) la bugia del sogno americano che imprigiona le libertà individuali in maniera assai più sottile, e solo in apparenza non violenta: fuggito dell’Ungheria, il protagonista del film affida infatti tutte le sue (ingenue) speranze all’illusione made in USA, che prometterebbe di mettere a frutto le sue competenze professionali. Davanti si troverà due personaggi (prima un cugino, poi un milionario) diversamente repressi, e vampiri dei sogni altrui, le cui meschine crudeltà (che ricordano quelle di molti personaggi
del cinema di Paul Thomas Anderson, anche a livello di contrappunti musicali) cercheranno di tirarlo giù, nell’abisso delle rispettive insoddisfazioni e delle rispettive (conseguenti) infelicità. Stessa sorte toccherà alla moglie giornalista quando riuscirà a raggiungere László Tóth negli Stati Uniti, perché dovrà mettere la propria intelligenza al servizio di articoli di poco conto, un po’ come il marito architetto aveva svenduto il proprio estro artistico a dei malvagi travestiti da ciarlatani. È per questo che la scena più toccante del film è quella in cui i due coniugi, dopo molti anni di astinenza, trovano di nuovo lo spunto per fare l’amore: pur essendo sotto l’effetto dell’eroina, quella droga devastante non travolge le loro identità, bensì riesce semplicemente a mettere da parte il tanto dolore di ieri e il tanto dell’oggi, così da far sentire loro, di nuovo, l’amore autentico che li univa, e ancora li unisce.
La scelta di far appartenere László Tóth al movimento architettonico del Brutalismo, che si serve del cemento per dare pulizia ed essenzialità alle opere, da un lato esprime il bisogno di liberarsi di tutte le sovrastrutture storiche e sociali che c’impediscono di sentire il bello del vivere, dall’altro, etimologicamente, richiama la brutalità di un mondo che cerca d’imprigionarci in un paese dei balocchi postmoderno i cui i tanti Mangiafuoco indossano la giacca e la cravatta. Sarebbe bello che l’Academy, nella notte degli Oscar, trovasse il coraggio (politico) di premiare questo film che, essendo diretto da Brady Corbet, cioè da uno dei due protagonisti del Funny Games originale, porta in sé un po’ della complessità critica di cui solo l’Europa è pienamente capace.

di Marco Lombardi