Oča

Un padre e un figlio trascorrono un’intera giornata in un bosco. Pescano, dialogano, verificano lo stato del loro rapporto. L’adulto avverte nelle risposte del bambino un’autonomia di pensiero e una lucidità di analisi che lo sorprende e lo rattrista. Il bambino ha reagito alla separazione dei genitori legandosi molto alla madre, con cui vive. Ma covando dentro di sé il dolore legato all’assenza paterna. Le lacrime riusciranno forse a stemperare i ricordi inclementi e a suggellare questo importante momento d’incontro e il tentativo implicito di recuperare le distanze, le incomprensioni e il tempo perduto. E in parte a colmare il peso dei silenzi prolungati, che preoccupano il padre operaio non meno di tanti altri suoi colleghi ai quali la crisi economica e le precarie condizioni lavorative concorrono a rendere difficile, anche sul piano materiale, la costruzione di un futuro per i propri figli.
Un film di immagini suggestive, di suoni evocativi, di raccordi lirici e di segrete intermittenze del cuore che al loro valore simbolico si richiamano implicitamente elaborando una trama che non è fatta di avvenimenti strettamente consequenziali. O non solo. Ma anche di stati d’animo che si riflettono nello spazio naturale circostante che, contraddicendo la prosa del quotidiano e della grave crisi che investe il futuro degli operai e dei loro figli, nello stesso tempo rappresenta un’ambiente accogliente, un contrappunto costante, una risposta universale che trascende le vicende individuali. Un orizzonte della crisi che trova in quest’opera prima di mirabile sensibilità poetica e di assoluto rigore una perfetta messa “in scena” e “in quadro” con accenti di spiritualità degni dei capolavori di Tarkovski e di Sokurov. Dove la dissolvenza incrociata si trasforma in uno degli stilemi più ricorrenti in grado di dare senso ai paesaggi, ai personaggi, alle realazioni. Di dare senso o piuttosto di dare forma artistica compiuta e innovativa ai rimorsi, ai ricordi, alle emozioni legate alla possibilità di ristabilire l’armonia smarrita. Come la quiete che fa seguito alla tempesta invisibile delle cose davvero importanti. Non dette, o non dette completamente. Non dette per pudore, per difficoltà ad esprimere i sentimenti più segreti, le zone d’ombra del carattere. Grazie all’impatto dello scenario naturale che con il suo tempo immobile, i suoi rumori rarefatti consente ai protagonisti di dare libero corso alle parole liberate dalla reticenza, alle lacrime liberate dalla durezza e dal disagio malcelato dei volti, ecco che si realizza il miracolo della compresenza. Del “tu” aperto che va a sostituirsi alla dimensione chiusa di uno o più di un “io”.
Vlado Škafar, regista, sceneggiatore, critico, drammaturgo e uomo di lettere, si occupa di diffusione della cultura cinematografica, essendo stato tra le altre cose co-fondatore della Slovenska Kinoteka (che ha diretto dal 1993 al 1999) e del festival internazionale Kino Otok – Isola Cinema. Come regista ha diretto cortometraggi e documentari quali Stari most (Il vecchio ponte, 1998), Peterka – Leto odločitve (Peterka: l’anno decisivo, 2003), Pod njihovo kožo (Under Their S.K.I.N., 2006), Nočni pogovori z Mojco (Conversazioni notturne con Mojca, 2008) e Otroci (Lettera ad un bambino, 2008), presentato al festival di Rotterdam nel 2009. Oča è il suo primo lungometraggio di finzione.
di Redazione