Philomena

Il film diretto da Stephen Frears, con Judi Dench, è tratto dal libro di Martin Sixsmith, ex giornalista della BBC.

Philomena

Difficilmente Stephen Frears delude e in questa occasione riesce addirittura a creare una vera dipendenza, dalla prima all’ultima scena, nello spettatore, il quale viene coinvolto emotivamente nella vicenda raccontata. Giocando sul pericoloso filo tra dramma e melò, riesce a raccontare con bravura una vicenda vera che mette in evidenza, una volta di più, su come certe suore potessero essere poco cristiane nel loro comportamento a causa di frustrazioni personali o di impostazioni maniacali del loro credo che le portavano ad essere giudici inflessibili dell’operato delle persone che consideravano peccatrici.

Quindi, una vita di umiliazione per le ragazze madri ospitate in Irlanda nella “Roscrea Abbey Sisters of the Sacred Heart” che di cristiano aveva solo il nome. Oltretutto, erano costrette a lavorare tutto il giorno nella lavanderia per potere avere il diritto di incontrare per un’ora i loro figli su cui, peraltro, non avevano nessun diritto poiché erano state costrette a firmare una manleva che permetteva alle religiose di fare qualsiasi cosa dei bimbi loro affidati.

Tratto dal libro di Martin Sixsmith, ex giornalista della BBC e poi spin doctor del governo Blair “trombato” per uno scandalo politico, Philomena è un film che rivela molto di un mondo di cui ancora adesso si sussurra ma di cui in realtà in concreto si sa molto poco. Ad esempio, le adozioni fatte principalmente da benestanti d’oltreoceano che comperavano questo diritto pagando 1000 dollari per ogni bambino, e ciò era tacitamente accettato dalle autorità. Vengono fatti nomi illustri: tra questi genitori adottivi che avevano trovato i loro figli a Roscrea ci sono stati anche Jane Russell e Jane Mansfield.

È vero, il tema era stato trattato, e con grande bravura, nel 2002 da Peter Mullan in Magdalene, raccontando la storia vera di quattro giovani donne che nel 1964 e delle vessazioni subite in uno dei conventi Magdalene gestiti dalle sorelle della Misericordia. Le ragazze, per espiare i loro peccati, erano costrette a lavorare fino allo stremo delle forze e a subire percosse e ogni genere di violenza psicologica, il tutto col placet di familiari che le avevano affidate a queste anomale suore perché le rendessero più domabili.

La bravura di Frears sta nel raccontare una storia in cui ogni figura ha il suo giusto spazio nello sviluppo narrativo descrivendo i loro pregi e difetti, dalla poco nobile idea del giornalista disoccupato di trovare una vicenda da cavalcare da vendere ad una rivista cinicamente specializzata in gossip e storie strappalacrime alla crisi di questa anziana signora ancora credente e che giustifica l’operato delle sue aguzzine perché si considera la colpevole che deve essere punita. Uscita dal convento un pomeriggio, era andata al Luna Park dove aveva trovato un ragazzo garbato e bello che non aveva avuto difficoltà a convincerla a fare all’amore, ma lei non sapeva nulla di sesso e che proprio per questo era serena fino a quando, senza capirne le ragioni, era rimasta incinta. Con una mentalità forgiata dal intransigente cattolicesimo irlandese, lei continua ormai anziana a sentirsi in colpa perché, oltre che a peccare, aveva provato piacere.

La figura della figlia della donna è molto bella, umana, risolutiva. È lei che contatta il giornalista, è lei che li accompagna al convento, è lei che aiuta la madre nella difficile scelta di andare begli Stati Uniti per cercare tracce del figlio. Terminato questo suo difficile compito, si mette da parte e lascia che la madre possa proseguire in questo viaggio verso l’ignoto accompagnata da un uomo di cui si fida, ma sempre pronta a rincuorarla telefonicamente quando serve.

Interpretata da Anna Maxwell Martin, con poche battute racconta dell’apparente normalità della loro vita fino a quel momento, dell’affetto filiale che le fa accettare di avere un fratello cinquantenne, del desiderio di rispettare sopra ogni cosa sua madre.

Sophie Kennedy Clark, con unica esperienza cinematografica in Dark Shadow (2012) di Tim Burton con Johnny Depp e Michelle Pfeiffer, interpreta la Philomena da giovane, facendocela conoscere come ingenua ragazzina che vive con serenità la sua adolescenza e che si trova catapultata in una vita fatta di sacrifici, di drammi, di immotivate speranze, di cocenti delusioni, di dolore. Viso splendidamente espressivo, una sceneggiatura che l’aiuta a dare il massimo al suo personaggio. E poi, le varie suore, dalla dolce Cathy Belton alla perfida Barbara Jefford in un perfetto mosaico di realtà operanti nello stesso Convento che si trasforma da luogo di carità in lager in cui l’umanità non è di casa.

Philomena è una perfetta Judi Dench che dona al suo personaggio una bellezza interiore notevole, una donna capace di perdonare e di andare avanti a testa alta. Questo viaggio lo vuole ma teme di scoprire che suo figlio possa essere drogato od obeso, che si sia dimenticato della natia Irlanda. Quando scopre che era nello staff dei Presidenti Reagan e Bush è orgogliosa, quando viene a sapere che è morto di AIDS è addolorata ma non giudica, vuole conoscere il compagno del figlio che, nell’ombra, gli è stato vicino per tanti anni.

Il giornalista/scrittore Martin Sixsmith è il motore di questa avventura; inizialmente è anche cinico ma ben presto tra I due nasce un reciproco rispetto nonostante siano così differenti. Lui corrisponde da Mosca per la BBC e studioso di storia russa, lei infermiera dal cuore d’oro che legge romanzetti rosa stupendosi ogni volta dei ‘colpi di scena’, lui divenuto ormai ateo, lei credente e timorata di Dio.

Steve Coogan, anche cosceneggiatore e coproduttore, si è ritagliato il personaggio a sua immagine raccontandolo con grande partecipazione senza mai omettere i mille difetti di un uomo in crisi perché è stato licenziato, perché vorrebbe scrivere un libro di storia e si occupa invece di una vicenda dal taglio molto popolare, una cosiddetta storia di vita vissuta. L’umanità che scopre di avere forse lo spaventa, il contatto con una donna così forte lo mette in crisi con se stesso.

Stephen Frears racconta in parallelo la vicenda della madre con una bella ricostruzione dell’Irlanda degli anni ’50 e un duro ritratto dei giorni nostri con amici solo dei potenti, la stampa che non rispetta di chi scrive, la politica in cui i capri espiatori spesso non c’entrano nulla.

Forse la scena più emozionante è quella dedicata al video, con immagini di tutta la sua vita, che il compagno aveva realizzato come omaggio per il suo amato. Immagini scelte molto bene, un taglio perfetto, emozionante senza mai divenire melodrammatico: un mini film nel film con grande impatto emotivo.

Bello, ben costruito, ottimamente raccontato in poco più di novanta minuti tutti da seguire, tutti da ricordare.

Trama

Philomena, ex infermiera che ha sempre avuto apparentemente una vita serena, viene scoperta dalla figlia con una foto in bianco e nero che ritrae un bambino. Alle sue domande, le apre il cuore e le confessa che 50 anni prima, ospite delle suore, aveva ancora adolescente partorito quel bambino che era stato dato in adozione contro il suo volere. Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto compiere mezzo secolo, le viene il desiderio di scoprire dove è. Un noto giornalista, collaboratore appena giubilato dal governo inglese, vede nella vicenda la possibilità di un articolo interessante e, assieme a lei, partono per Washington dove credono di avere trovato delle tracce del foglio della donna.


di Redazione
Condividi