Perduto amor
Il “perduto amor” a cui fa riferimento il titolo del film di Franco Battiato è senz’altro quello della madre di Ettore, il personaggio principale, per il marito assente o distante e, nella seconda parte, quello di Ettore stesso per sua madre.
Nel secondo tempo, infatti, la madre del protagonista, trasferitosi dalla Sicilia a Milano, scompare bruscamente e definitivamente dalla vita del figlio, per lasciar spazio ad un nuovo mondo, a nuove aspirazioni, alla bellezza della scoperta di sé. Come recita una nota canzone “si muore un po’ per poter vivere…”, così Ettore Corvaja (Corrado Fortuna), alter ego di Battiato, si separa da una parte importante di sé e apre un altro capitolo della propria esistenza, in una Milano anni ’60 ricca di fermenti e di frenesia.
PerdutoAmor è, allora, un vero e proprio “amarcord” che, pur nella diversità, condivide con altri due importanti film recenti, quali Il posto dell’anima di Milani e La meglio Gioventù di Giordana, un unico sapore: quello della nostalgia. Battiato, per raccontare l’itinerario di formazione (la lezione di cucito, di tantra, l’esoterismo, la filosofia) del suo giovane eroe non segue pedissequamente il corso degli eventi ma il filo della memoria: quello del film è il tempo del flusso di coscienza, delle intermittenze del cuore, non della mera oggettività. Non si tratta, per questo, di un’opera “difficile” o surreale, anzi: il neo-regista si diverte e, qualche volta, ci diverte anche con semplici trovate, come la presenza, a sorpresa, di personaggi noti, più o meno nei panni di se stessi (Lindo Ferretti dei PGR, De Gregori, Morgan, Maurizio Arcieri, Alberto Radius, ecc..).
Il primo film di Battiato è, in sintesi, una sorta di autobiografia, a tratti compiaciuta, che provoca nello spettatore un’opposta reazione: c’è chi prende le distanze e si interroga sulla reale necessità di raccontarsi e chi, al contrario, considera quasi un regalo prezioso la condivisione, da parte del cantautore-regista, delle proprie esperienze. E’ esattamente lo stesso stato d’animo che si prova quando qualcuno, senza averglielo domandato, ci parla spontaneamente di sé: ci si può disinteressare, annoiandosi, oppure, confrontandosi in qualche modo con l’altro, ci si può sentire, pur nella irriducibilità delle singole vite, meno soli.
di Mariella Cruciani