Un mondo d’amore
Un mondo d’amore di Aurelio Grimaldi è un film struggente, in cui protagonista non è il Pasolini intellettuale o artista, ma l’uomo, anzi il ragazzo.
Grimaldi si concentra, infatti, su una fase precisa e cruciale dell’esistenza del giovane Pasolini: la vicenda di Ramuscello e le sue drammatiche e decisive conseguenze. Tutto il piccolo mondo del poeta, articolista, insegnante di lettere, segretario del partito Comunista cittadino, crolla in seguito all’incriminazione per corruzione di minorenni e atti osceni: al 27enne Pier Paolo (Arturo Paglia) non resta che prendere un treno per Roma, accompagnato dalla madre “fatale” Susanna (Guia Jelo).
Proprio sul treno per la capitale è ambientata una delle sequenze più significative dell’intero film: un’anziana signora parla a tutti del figlio sposato e con prole e, con orgoglio, ne mostra le foto. Contemporaneamente, in treno, è presente anche una giovane coppia di innamorati: insomma, si respira un’aria d’amore e di tranquillità, di fronte alla quale Pasolini sorride tristemente. Il sentimento, inevitabile e opprimente, di esclusione dalla vita e dalle sue piccole gioie, che l’opera di Grimaldi comunica è già tutta in queste semplici immagini. A suggellare questo senso di impotenza e di estraneità, è lo stesso Pasolini, quando, in una lettera al cugino, scrive: “Nessuno, con questo dèmone, mi potrà mai amare!”. Naturalmente, il demone in questione non è semplicemente quello della diversità sessuale, quanto, più radicalmente, l’essere “altro” rispetto alla gente comune.
Per tutto il film, il giovane Pasolini è pressoché muto, chiuso in se stesso, in una sorta di autismo e l’unica facoltà che sembra esercitare è quella dello sguardo. La stessa attività di scrittore appare quasi una coazione per riempire il vuoto delle giornate e la lettura forsennata dei libri una fuga dalla quotidianità.
In sintesi, il giovane Pasolini di Grimaldi non ha nulla da invidiare al Tonio Kroger di Mann: in entrambi i casi, quello che resta è il desiderio, fortissimo e votato allo scacco, di banale “normalità”.
Il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere, e non è stato, l’ineluttabilità del proprio destino, l’impossibilità di scegliere: sono questi i temi profondi del bel film di Grimaldi.
Un’opera da ricordare anche per l’intensità del bianco e nero e per la forza dei volti di tutti i personaggi, un omaggio autentico e partecipe all’artista più importante dell’Italia del ‘900, alla sua sensibilità e fragilità dolenti.
Mariella Cruciani
Riflessioni critiche
di Maurizio Fantoni Minnella
Cronaca poetica di una persecuzione e di un esilio, della scoperta, attraverso una città, del proprio mondo poetico: croce e delizia di un giovane Pasolini che il siciliano Aurelio Grimaldi vorrebbe quasi etereo, astratto, indifferente al mondo da cui è circondato, fatta eccezione per l’adorata madre che lo ricambia con silenzioso amore e sacrificio, seguendolo nell’esilio romano ed accettando umili lavori, e per i ragazzi, incarnazioni di giovinezza e innocenza. Ma nel film Un mondo di amore, che con Nerolio (1999), completa il dittico sul poeta di Casarsa, (a cui idealmente possiamo aggiungere il pasoliniano Rosa Funzeca, 2002), vi è assai poco della ricerca della bellezza attraverso la classicità delle rovine di Roma antica che nel sentire del poeta si saldava con i residui di una civiltà pastorale identificabile, nel presente, con il microcosmo delle borgate; si avverte piuttosto un’urgenza di semplificazione, di astrazione della figura stessa di Pasolini in puro spirito; e nel percorso visivo verso la sua santificazione s’incontrano perlopiù figure e non personaggi in carne ed ossa, ombre più che presenze reali. Perfino la madre Susanna Colussi, la cui immensa pietas avrà il volto di Maria Maddalena ne Il Vangelo secondo Matteo, pare un po’ troppo in disparte rispetto verità che cela il suo personaggio. Vi è forse un’eccezione nella sequenza del sogno fatto da Pasolini durante il viaggio verso Roma: il ritratto di un ragazzo su di una foto si trasforma in personaggio con una storia d’amore, di guerra e di antifascismo, sebbene si fatichi a comprendere la necessità di inserire spezzoni storici di repertorio che mal si accordano con la fantasia dell’invenzione.
Fedele al proprio stile, più vicino alla poesia che alla prosa (per usare un noto principio pasoliniano), quasi al limite dell’ossessione, (per cui si è parlato di autorialità maniacale), Grimaldi rifugge ovviamente dai toni biografici di tanto cinema italiano per rifugiarsi nell’estetica del frammento; non è, infatti, il racconto in sé ad interessarlo e neppure un intento didattico, quanto l’evocazione di un fantasma, di un sentimento delle cose che nasce da una sensibilità d’eccezione, quella del poeta su cui, quella del cineasta si sforza, ma non invano, di modellarsi. Ma se il mondo in cui si muovono i personaggi pasoliniani almeno nella seconda parte della sua opera conosce i “colori del mondo”, quello nel raffinato bianco e nero rievocato da Grimaldi possiede invece il gusto retrò dell’omaggio più la sommessa melodia di un Requiem. Delle grandi ambizioni del regista di Termini Imerese che studiò a Luino, in provincia di Varese, resta comunque la volontà, sia pure un po’ monotematica, di fare un cinema libero dai condizionamenti dell’industria dello spettacolo,(girato a basso costo con set quasi esclusivamente a Vibo Valentia, in Calabria, e pochi esterni, con finanziamenti statali ottenuti da un governo di centro destra), di certo inseguendo un demone personale che altri, forse, faticano a comprendere, ma che muove lo scrittore e il cineasta verso luoghi insidiosi e disturbanti che il fotogramma finale (col poeta che prende tra le braccia un bambino delle borgate), tenta invano di addolcire.
di Mariella Cruciani