La 25a ora
Mancano 25 ore, prima che al protagonista bianco del nuovo film di Spike Lee tocchi l’infelice e scomodo destino del carcere. Ritratto di uno spacciatore pentito (Norton) e dei suoi due amici, un professore frustrato e uno yuppie di successo. Il tempo di libertà che gli resta diventa il pretesto per un racconto dove non accade quasi niente, mentre il tanto decantato melting pot newyorkese sembra interessare il regista di colore soltanto in una sequenza (che diventerà celebre) in cui il giovane spacciatore (in un’interpretazione “rubata” a American History X) dichiara la propria insofferenza verso tutte le minoranze etniche, passandole con furore in rassegna come un catalogo da sfogliare, quasi che Spike Lee voglia attribuire alla mescolanza di tutte quelle facce, i mali della società newyorkese, magari compreso il “ground zero”, ossia quella nera voragine dietro la quale si nasconde il cuore malato dell’America, ma di quelle facce non si vede granchè, e il film sembra rinunciare ad un “centro”, gravitando piuttosto su un narrato “già vissuto”, ossia affidato a personaggi più ipotetici che sinceramente reali, affidati, per così dire, alla leggibilità immediata dello stereotipo che accentua il divismo del protagonista, solo con i suoi dubbi, nonostante il clima di rimpatriata goliardica in cui viene coinvolto.
Ciò significa richiamarsi ad un altro vuoto, quello degli affetti, delle idee e delle azioni, senza tuttavia riuscire a cogliervi il significato profondo.
La 25a ora è, infine, un racconto sul tempo, ma senza il senso delle ore che trascorrono e pesano, che sfrutta abilmente la dimensione del “colloquio tra amici”, col suo potenziale di verbosità retorica, nel tentativo di sviluppare una nuova indagine sull’uomo, tuttavia senza riuscire a ritrovare l’efficacia delle sue prime opere da Mo’ better blues a Clockers.
di Maurizio Fantoni Minnella