Old Boy
Tratto da un fumetto manga giapponese, creato nel 1997 da Tsuchiya Garon e disegnato da Minegishi Nobuaki, Oldboy (Gran Premio della Giuria, Cannes 2004), sembra voler ridisegnare la mappa principale del genere thriller. Infatti la strategia narrativa del coreano Park Chan-Wook, parte cogliendo la trama del fumetto, ma, trasportatala all’interno del territorio coreano, ne trasforma il finale, acceso, violento, ma morbosamente romantico. E per uno spettatore abituato a confrontarsi con il sistema narrativo americano contemporaneo è decisamente spiazzante.
Spiazzante perché sadico ma impalpabile, enigmatico ma ipnotizzante. La trama è molto lineare: Dae-soo viene inspiegabilmente rapito da una sorta di psicopatico che lo rinchiude per quindicianni all’interno di un appartemento/prigione. Un giorno ne esce pieno di rabbia e inizia ad indagare sul perché di questo crimine. Incontra una ragazza, se ne innamora, mentre, l’aguzzino si presenta sotto i propri occhi e lo aiuta a capire. In questo caso il tema della vendetta che sembra percorrere tutto il film, ha l’obbligo di trasformarsi in salvezza, di restituire un senso a ciò che è rimasto, o meglio, sopravvissuto.
Lo spettatore fin dall’inizio è costretto a rimanere rinchiuso in quella sordida stanza, senza che gli venga offerta nessuna giustificazione, poi, passati quindicianni, mediando la realtà da un piccolo televisore, tutto sembra essere fuori controllo. La realtà inizia ad assumere i connotati di un preciso piano predisposto. Le indagini si fanno fitte, la volontà di perseguire la verità a tutti i costi, diventa il motore principale dell’azione dei personaggi. Dae-soo si relaziona con l’esterno in maniera conflittuale, percorrendo delle strade estreme, violente. E’ determinato. Ma la realtà è un’altra, o meglio la realtà è altro, è passato, ricordo, formazione. Park Chan-Wook rilancia nella sua pellicola gli stilemi del thriller americano depurandoli dagli elementi patriottici e civili che portano con se, quasi volesse lavarlo dal suo peccato originale. Tant’è che, verso la fine, ci si interroga su un finale che potesse riecheggiare la rivoluzione americana della fusione tra al di là e terra dei vivi, colpa ed espiazione. Invece è semplicemente la risposta ad un’azione, qualcosa che c’è stato e che nel suo essere trascinato nel continium spazio-temporale, provoca uno stato di cose, un destino segnato, corrotto dai corrotti, perpetrato con lucida follia. Ma la mente vuole ricordare? Può portarsi appresso i fantasmi di un’adolescenza inconsapevole? Il finale non porta con se nessun giudizio. Non ci sono buoni ne cattivi, vinti o vincitori. Sembrerà strano che tutto parta dall’amore (spero di non rivelare troppo) ed è qui che tutto si complica all’infinito.
di Davide Zanza