Never Let Go
La recensione di Never Let Go, di Alexandre Aja, a cura di Gianlorenzo Franzì.
In una casa in mezzo al bosco, una mamma senza nome vive con i suoi due figli Nolan e Sam; per uscire, devono sempre legare il proprio corpo ad una corda che li tiene come un cordone stretti alla loro dimora.
Parte con questo low concept Never Let Go di quell’Alexandre Aja che aveva fatto gridare al miracolo con la sua incredibile opera seconda (Alta Tensione, del 2003) ma che dopo non è mai riuscito a confermarsi alle altezze delle aspettative. E Never Let Go non è diverso dal resto della sua produzione, allora, perché ha un incipit fortissimo, tanto che parte del collante per lo spettatore è chiedersi come possa continuare la storia, e sempre nella prima mezz’ora infila due o tre jump scare non da poco, perfettamente contestualizzati nel percorso narrativo. Poi continua stratificando metafore bibliche, suggestioni cinefile, interpretazioni di alto livello (Halle Berry è straordinaria in un ruolo difficilissimo, ad alto rischio clichè, ma Anthony B. Jenkins e Percy Daggs IV non sono da meno), e soprattutto una pianificazione di senso particolarmente interessante: il rapporto assoluto di amore della madre per i figli si scontra con il componente scardinante del mondo artificiale che gli costruisce intorno, ovvero proprio il figlio più piccolo, tutto perfettamente congegnato intorno alla messa in scena e alla sua componente spaziale -le lunghe funi che si intrecciano negli alberi, la dimensione esterna e interna della casa come focolare domestico.
C’è poi quel particolare nascosto che avrebbe forse dato un valore aggiunto al film se fosse stato meno sotterraneo: la polaroid che la madre mostra ai figli, relativa alla sua vecchia vita, la mostra come una ragazza bianca, mentre lei nel film è nera; e la stessa madre di lei, che fin dall’inizio si mostra come un incubo, è di carnagione bianca. Seguendo allora il solco tracciato da Jordan Peele e il suo cinema horror razziale, (ma anche Little Marvin o Ti West), Never Let Go a tratti sembra pervaso, o meglio avrebbe potuto essere pervaso, di una foga teorica che accende la donna nera protagonista che preferisce vivere reclusa piuttosto che affrontare un mondo dominato dai bianchi, per di più legata a corde che richiamano apertamente lo schiavismo.
Eppure, anche se la seconda metà del film esplode inaspettatamente dopo la svolta, è la terza parte, l’epilogo, che confonde fin troppo aggiungendo spiegazioni contrastanti: se fin dall’inizio Aja sembra giocare allo scoperto, man mano che il film procede gioca con un’ambiguità che chi guarda pensa fino all’ultimo essere un gioco volatile. Eppure il racconto, con quei finali e sottofinali, non va mai in una direzione precisa, contraddicendosi in maniera fastidiosa.
Si pensa allora ad esempio a Shyamalan, ai suoi finali ad orologeria, e a quanto possa essere difficile costruire qualcosa di importante ma anche una conclusione che sia all’altezza.
di Gianlorenzo Franzì