Nero
La recensione di Nero, di Giovanni Esposito, a cura di Emanuele Di Nicola.

Nero di Giovanni Esposito si apre nel rigoroso rispetto del codice di genere: c’è una rapina. Un uomo, Nero, interpretato dallo stesso regista, fa irruzione in un negozio insieme ai suoi complici, ma il misfatto finisce male; una vittima rimane a terra trafitta da colpi di pistola. Il protagonista fugge, disperato e roso dal senso di colpa. Siamo in Campania, nel non luogo sospeso tra Mondragone e Castel Volturno, fotografato da Daniele Ciprì, ma non è il solito film sulla camorra né l’ennesima gomorrata dei nostri anni. Il congegno è noir, certo, perché Nero è un pesce piccolo, un criminale di mezza tacca e mezza età, che delinque per prendersi cura della sorella disabile Imma (Susy Del Giudice).
Ma c’è qualcosa che spacca il genere, che inceppa il meccanismo e lo rovescia su un altro piano: Nero apprende con sconcerto che la vittima non è morta, anzi è ancora viva e grida al miracolo, proponendosi come figura soprannaturale e quasi religiosa, omaggiata da molti. Perché? Nero l’ha toccato con le sue mani, quando era corpo esanime, ed è stato proprio il contatto a guarire il ferito come un novello lazzaro… insomma, Nero è un guaritore. Però per ottenere qualcosa bisogna sempre rinunciare a qualcosa; ecco che l’uomo tocca con mano una pentola bollente e non prova nulla, scoprendo che il gesto taumaturgico lo porta a perdere gradualmente gli altri sensi, come il tatto. Ed ecco che il noir incontra una forma di realismo magico, il poliziesco diventa melò, attraverso il rapporto tra fratello e sorella. Con le sue proprietà miracolose riuscirà forse a guarire anche lei?
Il pasticcio criminale si intreccia allora al “dono” del personaggio, con conseguenze che si possono immaginare, tra la mano della criminalità organizzata e l’imposizione di aiutare ricchi malati che non si può rifiutare. Anche Alessandro Haber in sedia a rotelle ambisce al tocco del guaritore. Esposito impasta i generi ma resta fermo sulla poetica degli ultimi: “Le periferie delle periferie – dice il regista – sono un continente a parte dove convivono tutti i continenti, dove le regole naturali sono spesso riscritte (…). Nero si sente un immigrato in questo continente di immigrati, ma con l’atteggiamento del colonialista, di chi è perennemente in credito. Non è nero per niente, in verità, solo che in mezzo a questa comunità in prevalenza africana ci è cresciuto, adattandosi a un luogo che raccoglie gli scarti della società”.
Si impone allora come evidente il sottofondo sociale ma non solo, perché il discorso si apre a una sorta di sovradeterminazione cosmica: i poveri, i deboli, i loser possono sognare il riscatto ma non afferrarlo davvero. Il riscatto è, appunto, un miracolo. La voce di Lucio Dalla che canta Felicità suona come un’antifrasi. Presentato al Torino Film Festival 2024, valorizzato dall’intero parco attoriale (c’è anche Peppe Lanzetta), in sala dal 15 maggio distribuito da Bartlebyfilm: è un punto nero nel cinema italiano, uno che ci prova, non tutto è perfetto ma resta il coraggio dell’amarezza, lontano dalle solite logiche e dalla dittatura del carino.
di Emanuele Di Nicola