Le paludi della morte

Ami Canaan Mann è qui al secondo film dopo Morning del 2001 in cu raccontava dei rapporti conflittuali tra una coppia di amici, della morte di uno di loro in situazioni dubbie, del tentativo dell’altra di donargli un funerale cristiano nonostante l’opposizione dei familiari.
Figlia del regista Michael Mann che risulta quale produttore, ha avuto una collaborazione familiare a tutto tondo con la sorella Aran Reo Mann che ha curato la scenografia ma che la ha anche indirizzata nella scelta delle atmosfere e delle inquadrature data la sua esperienza nel mondo dei video; non solo, Andrew e Travis Mann hanno coprodotto.

In realtà, è un film voluto profondamente da Michael che aveva messo le mani sul soggetto parecchi anni orsono ma che non si decideva mai a realizzarlo. Affidato alla figlia, è rimasto fin troppo all’interno di ogni situazione, di ogni inquadratura. Sembra quasi che Ami sia stata condizionata fuori dai limiti dell’accettabile, tanto da realizzare un’opera in cui è difficile riconoscere sostanziali differenze con lo stile di Michael. I lunghi anni di apprendistato col padre, la figura dell’onnipresente produttore, il ‘controllo’ familiare non le hanno permesso di esprimere una propria identità. Non più giovanissima, pur con grande esperienza nel mondo del cinema di cui fa parte dall’età di 16 anni, sembra strano non abbia avuto altre occasioni per dirigere in tutti questo tempo: probabilmente il suo talento si esprime meglio come sceneggiatrice e in televisione.

Onesto ma non convincente, ben girato ma privo di idee, bene interpretato ma con personaggi troppo stereotipati, belle musiche ma prive di propria identità, immagini perfette visivamente che non sempre sono propedeutiche allo sviluppo drammaturgico, attenzione ai particolari dimenticando l’intreccio.

Presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia non aveva entusiasmato anche se un po’ tutta la critica l’aveva considerato degno di interesse. Tratta temi difficili, racconta delle comunità della palude, di un mondo in cui le regole non sempre corrispondono alla legalità, di realtà spesso non conosciute nemmeno dagli stessi statunitensi. Basato su di un fatto realmente accaduto, racconta privilegiando i toni del noir su ogni altra cosa, compreso il sociologico, il sentimentale, il thriller.
Manca la coesione tra buone individualità ma, soprattutto, una definizione dei personaggi che superi i limiti degli stereotipi.

Brian, l’agente giunto da New York, è un uomo profondamente cattolico e davanti alla morte non riesce mai ad essere freddo: ha una famiglia felice ma anche il desiderio di dimenticare un suo fallimento sul lavoro che aveva portato alla morte di una persona. In ogni cosa l’umanità lo costringe a comportarsi in maniera anche illogica, rischiando di essere ucciso pur di salvare potenziali vittime.

Mike è stato provato dalla vita, è divorziato da una collega e vive solo con il loro cane. Fa coppia con l’altro, ma cerca sempre di considerare il suo solo come un lavoro, di evitare grane non mettendo il naso dove non deve. Onesto ma distaccato, alla fine dimostra di essere anche lui un uomo capace di forte emozioni. Shauna è più simile a Brian che non al ex marito Mike, è fortemente legata al suo lavoro che per lei è ragione di vita, non ha paura di sporcarsi le mani, di rischiare, di provare emozioni. Forse, nel finale, si intravvede un riavvicinamento tra i due ex. Ann è sicuramente il personaggio più importante. E’ una ragazzina che ha già conosciuto il riformatorio, che è agli arresti domiciliari ma deve stare fuori casa perché la madre accoglie i suoi amichetti, cerca disperatamente aiuto per sfuggire da una realtà di cui non si sente protagonista. In lei il disagio di un mondo costretto da sempre ad essere emarginato.

La scelta di Texas City vuole essere simbolo di questa insofferenza: cittadina con meno di 50.000 abitanti conosciuta per il clima impossibile, per la morte anni addietro di circa 600 persone dovuta all’esplosione di una nave, per la notevole delinquenza presente. Nelle sue vicinanze nel 1969 i famigerati killing fields, campi della morte, in cui erano stati trovati 53 cadaveri di donne uccise, molte di loro violentate e giovanissime.

La storia scritta e sceneggiata da Don Ferrarone, qui come Donald F. Ferrarone, non entusiasma, è convenzionale e priva di autentica capacità di coinvolgere. L’inglese Dickon Hinchliffe compone musiche d’effetto che a tratti divengono fastidiose, soprattutto quando privilegia sonorità con sintetizzatori. Le ottime immagini sono firmate da Stuart Dryburgh. Colori lividi, perfetta resa degli effetti luminosi donata dalla pioggia, inquadratura chirurgica dei particolari. Ma il suo lavoro non sempre viene bene utilizzato dalla regista che forse avrebbe dovuto evitare certi preziosismi per dedicarsi più al racconto dei fatti. Validissime le ricostruzioni e le ambientazioni curate da Aran Reo Mann, una delle cose migliori del film.
Gli interpreti maschili, Sam Worthington e Jeffrey Dean Morgan, sono funzionali. Altro discorso meritano le emergenti Chloë Grace Moretz e Corie Berkemeyer. Chloë è la giovane Ann, la ragazzina che rifiuta un destino già scritto per lei, ed affronta il personaggio con naturalezza, senza forzature né furberie: questa quindicenne è sicuramente da seguire. Corie, che interpreta la poliziotta, è al suo primo film: è brava, equilibrata, sensibile, attenta a rendere sempre con lievità il personaggio.

TRAMA

Texas City. Due agenti della omicidi, uno nato in quei luoghi e l’altro proveniente da New York, indagano su efferati delitti con vittime giovani ragazze sbandate i cui corpi mutilati vengono rinvenuti nella palude, non tutti sono nella loro giurisdizione ma sono simili e, probabilmente, eseguiti dallo stesso serial killer. Collaborano con poliziotta ex moglie dell’agente locale che lavora in altra Contea, rischiano il tutto per tutto per sventare altri omicidi.


di Redazione
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