La comune
Co-fondatore a soli 26 anni con il maestro Lar Von Trier di “Dogma 95” e già in più di un’occasione attento osservatore delle dinamiche esplosive che governano la famiglia e le comunità chiuse (si vedano titoli esemplari quali Festen — Festa in famiglia, Riunione di famiglia e il magnifico Il sospetto), con La comune il quarantaseienne regista e sceneggiatore danese torna ad affrontare un tema a lui evidentemente caro.
Ma questa volta lo fa saccheggiando la propria esperienza autobiografica per scrivere quella che lui stesso ha in più di un’intervista definito «una lettera d’amore alla sua infanzia» di adolescente cresciuto in un insolito contesto sociale molto simile a quello illustrato nel film e non certo infrequente sia nella Danimarca di metà anni ’70 che in molte altre parti del mondo.
Tra le tante utopie più o meno illusorie che alimentarono la fertile stagione di quegli anni era assai diffusa l’idea che per superare gli angusti e asfissianti confini della vita di famiglia intesa nel senso del più classico conservatorismo borghese la ricetta più efficace fosse quella di andare a vivere in tanti sotto lo stesso tetto, accettando di mettere ogni cosa in comune e rinunciando a tutte quelle forme di egoismo individualista che sembravano essere l’inevitabile condanna per ogni esistenza vissuta all’interno di un tipico nucleo famigliare.
Il padre di Vinterberg, noto critico cinematografico, decise di imbarcarsi anche lui in un’avventura utopistica di quel genere. E fu così che Thomas visse dai 7 ai 19 anni in una «comune» in una strada del centro di Copenaghen dove vi erano già altre sei strutture simili. Il tutto nella ferma convinzione che l’incubo di un’adolescenza trascorsa all’ombra della falsità di facciata che caratterizza la classica famiglia borghese impostasi come modello dominante in tutte le società occidentali non riuscisse a inquinare le menti in formazione dei propri due rampolli.
Ma come quasi tutti i casi analoghi di utopie hippie di quegli anni ben presto rivelarono, quella della vita in comune non tardò a mostrare tutta la propria inadeguatezza come alternativa possibile ai modelli canonici di socializzazione nucleare in atto da secoli. E il film di Vinterberg è anche questo, oltre ovviamente a molte altre cose che travalicano il mero disegno di riproporre sullo schermo una spaccato della società danese di quegli anni e insieme un tuffo nostalgico negli anni più o meno spensierati della propria infanzia.
Al centro della vicenda c’è una coppia molto aperta di intellettuali nordici: lui, Erik, è un docente universitario di architettura diviso tra ansie di affermazione professionali extra accademiche e la noia di una routine variamente inquinata dal ribellismo imperante del corpo studentesco animato dagli slanci ribellistici da post ’68. Lei, Anna, è una celebre anchorwoman della TV danese che tutti conoscono perché da anni legge il notiziario principale della sera.
Quando Erik eredita dal padre (con cui era in rotta da più di vent’anni) un’enorme villa in un bel quartiere della capitale, sulla scorta del pessimo rapporto che lo legava al genitore ma anche per gli insostenibili costi di gestione, decide di vendere la casa. A convincerlo a non farlo è la moglie Anna la quale propone invece di invitare a viverci una serie piuttosto scombinata di amici, ipotizzando così la creazione di una vera e propria «comune».
Sulle prime le cose vanno piuttosto bene. Tutti accettano di condividere scelte e decisioni di ogni genere, ripartendo le spese di gestione dell’immobile e della vita quotidiana ma anche rinunciando in parte a quell’intimità che una casa in proprio garantisce. Un aspetto questo che col tempo contribuisce a raffreddare i rapporti tra Erik e Anna, il cui legame quindicennale sempre stato basato su sincero affetto reciproco stava già iniziando a far intravedere le prime crepe dovute al consolidarsi di abitudini e routine.
E quando una bellissima studentessa ventiquattrenne mostra a Erik di essere ancora un uomo carico di fascino e capace di far innamorare una splendida ragazza della sua età, gli basta un attimo per prendere una decisione drastica e lasciare Anna, facendo il colossale errore (sempre sulla scorta della distorta ideologia comunitaria che governa la piccola comunità venutasi a creare nella grande villa) di invitarla a vivere sotto lo stesso tetto. Senza ovviamente pensare alle devastanti conseguenze potenziali di tale proposito.
Conseguenze che non tardano a palesarsi nel loro sconvolgente potere di detonazione interiore. Dopo aver inizialmente accettato (con flemma nordica che dalle nostre parti sarebbe impensabile) la decisione del marito e aver iniziato a immaginare una sua vita senza il compagno di anni, col passare dei mesi Anna si avvita in un vortice depressivo che la porta prima a perdere il lavoro e poi a lasciarsi andare a cercare nella bottiglia quella consolazione che l’esistenza non le può più dare.
E la sua crisi interiore con il progressivo scivolare verso soglie di follia autodistruttiva (uniti però anche alla morte prematura del figlioletto di nove anni di una delle coppie della casa) segna anche l’inizio della fine della «comune» stessa che il gruppo si è illuso di poter costruire in sostituzione del normale tran tran borghese. Quando Anna fa le valigie e abbandona il resto della ormai non troppo allegra brigata, anche se lo schermo nero annuncia un finale aperto, in sala non sfugge a nessuno che da quel giorno in poi tutto sarà destinato a tornare come prima. Ma soprattutto che l’utopia di voler creare nuove regole per una società lanciata nel futuro e disancorata dalle zavorre del passato non può essere altro che una pia illusione per anime belle.
Tratta da un’omonima pièce teatrale scritta da Vinterberg qualche anno addietro (il cui impianto di fondo influenza in maniera assai pesante la claustrofobia della maggior parte delle lunghe sequenze dialogate ambientate all’interno della casa) e incentrata su elementi genuinamente autobiografici, La comune è un film riuscito solo in parte e di gran lunga meno incisivo e cattivo di quanto non fossero precedenti titoli del talentuoso regista danese.
Deciso a celebrare con la forza dell’evocazione nostalgica non solo gli anni beati della propria adolescenza libera e selvaggia ma anche un’esperienza di vita alternativa che in quegli anni illuse in tutto il mondo la generazione ribelle della fine degli anni ’60, Vinterberg mantiene fede allo scopo programmatico della sua trasposizione cinematografica solo in parte, allineandosi forse involontariamente a un filone che di recente sembra aver riscoperto sul grande schermo quelle esperienze ormai relegate al rango di archeologia sociologica (si vedano casi come Together del norvegese Moodysson, The Village di Shamalyan, il recente Vizio di forma di Anderson o ancora il finale della la serie TV Mad Men).
Quando infatti l’emergere del classico triangolo borghese lui, lei e l’altra spariglia le carte in tavola e rompe i precari ma sufficienti equilibri che governano la vita della comune, il peso della sceneggiatura si sposta pericolosamente dalla rievocazione attenta e scrupolosa di un’era alla descrizione del travaglio interiore dei due protagonisti e soprattutto del deragliamento esistenziale della vera vittima di tutto, e cioè l’incolpevole Anna (interpretata da una favolosa Trine Dyrholm cui a Berlino è andato l’Orso d’argento come miglior interprete femminile in un ruolo da protagonista).
Come se all’improvviso le atmosfere cupamente nordiche del bergmaniano Scene da un matrimonio irrompessero nella sceneggiatura e si facessero largo a suon di gomitate tra le altre tensioni drammaturgiche presenti e le relegasse in margine. E a questo proposito è difficile negare che a Vinterberg interessi proprio mettere programmaticamente in evidenza come a rompere la magia dell’illusione hippie della comune siano le trite consuetudini del bignami comportamentale del buon borghese (il lui che si mette con la ragazzina quando è stanco della moglie).
Ma questo spostamento drastico di attenzione narrativa crea uno squilibrio troppo forte e condanna La comune al ruolo di bella incompiuta. Un esperimento di immersione autobiografica con ambizioni di studio sociologico nel quale il gusto per la cattiveria sadica che Vinterberg ha mostrato essere una delle cifre vincenti del suo cinema da bisturi analitico della crudeltà lascia il posto alle derive di un bozzettismo di maniera spacciato per scavo psicologico e lasciato scorrazzare a briglie sciolte senza essere tenuto adeguatamente sotto controllo.
Trama
Erik, docente universitario di architettura, eredita la vecchia casa di suo padre a Hellerup, a nord di Copenhagen. Siccome la villa è enorme, sua moglie Anna, nota anchorwoman televisiva, suggerisce di invitare alcuni amici ad andare a vivere con loro nella speranza di combattere la noia che ha iniziato a minacciare il loro matrimonio. In poco tempo, una decina di donne, uomini e bambini si trasferiscono nella casa di campagna creando una vera e propria “comune” nella quale le decisioni vengono prese in maniera collettiva. Le discussioni e i contrasti non tardano però a fare la loro comparsa, al punto da mettere a rischio il fragile equilibrio che governa la piccola comunità. Il che però accade quando Erik si innamora di una studentessa Emma, da poco trasferitasi nella casa. Spettatrice degli eventi è Freja, la figlia adolescente dei due protagonisti, la quale cerca di trovare la sua strada nella vita osservando con distacco la vita degli altri.
di Redazione