Femen – L’Ucraina non è in vendita

Dopo un rapido passaggio fuori concorso alla Mostra di Venezia 2013  e forse anche sulla scia dei drammatici eventi di questi mesi (da cui l’ambiguo titolo della distribuzione italiana rispetto all’originale) arriva in sala, almeno nelle grandi città, il documentario  Femen-L’Ucraina non è in vendita. Stando alle interviste rilasciate, la regista australiana (ma di nonna ucraina) Kitty Green incontra le attiviste del movimento a Kiev durante un suo viaggio turistico, le convince a farsi intervistare, vive con sei di loro in un piccolo appartamento per 14 mesi, poi, tornata in Australia, monta da oltre 700 ore di girato un film di poco più di un’ora. Se il lavoro ha un impianto assai tradizionale e una confezione low-cost, la filmmaker, alla sua prima opera degna di nota, ha comunque il merito di offrirci un ritratto che va oltre la facciata pubblica del movimento “femminista” ucraino, nato nel 2008 dall’onda lunga della cosiddetta “rivoluzione arancione” e da quella frattura socio-politica interna che ora è giunta a minacciare gli equilibri geo-politici mondiali.

Il montaggio alterna le interviste alle protagoniste in interni quasi spogli, ma ricchi dei più svariati dispositivi di connessione tecnologica (che spesso interrompono la narrazione), alle immagini, d’archivio o live, delle loro azioni provocatorie in esterni. Anche per la continua e necessaria esposizione mediatica, la vita di  Sahsa, Inna, Irina, Yevgenia, Alexandra, Anna, Oksana, è frenetica, precaria, e non priva di rischi, anche fisici, che esse accettano con fierezza e coraggio. Sono loro del resto, le giovani e bellissime (sin troppo, come dicono nel film alcune donne) front-women del movimento (che conta però su una schiera più vasta di aderenti nel backstage e, soprattutto, su una vasta rete di fan e supporter, peraltro a maggioranza maschile, molto attiva sui social).

Dietro le numerose e spesso eclatanti incursioni simbolico-dimostrative (di norma compiute nelle vicinanze o all’interno dei  luoghi del potere, politico o religioso) sapientemente orchestrate sul piano mediatico dallo stesso gruppo, il documentario rivela contraddizioni e paradossi presenti, sin dalle origini, nella vicenda Femen. In particolare, alla Green interessa mostrare il “lato oscuro” del movimento, ovvero il fatto che tra i suoi fondatori ci sia un uomo, Victor Svyatski (che accetta di farsi  intervistare) di cui la regista nel finale svela il volto e soprattutto il ruolo: una sorta di guru, ma soprattutto il manager, il quale  (probabilmente sostenuto a sua volta dietro le quinte da uno staff invisibile) detta la linea, organizza l’agenda, crea gli slogan da combattimento e confeziona anche i comunicati stampa delle azioni Femen. Insomma – qui il paradosso è in effetti inquietante (pensando alla cultura e alla struttura fortemente patriarcale dell’Ucraina) – un  “padre padrone” del quale le stesse donne nel film confessano di essere state a lungo psicologicamente succubi.   Peraltro,  ormai da un anno Victor ha lasciato il collettivo, anche a seguito dello scandalo e dei contraccolpi mediatici che queste rivelazioni hanno innescato.

Le contraddizioni e i paradossi del movimento hanno comunque precisi territori  di riferimento. In primo luogo l’Ucraina come contesto socio-culturale. Il titolo originale del documentario “L’Ucraina non è un bordello” chiariva bene l’assunto di partenza della protesta nata per denunciare l’intreccio perverso tra sfruttamento sessuale della donna, autoritarismo politico e fondamentalismo religioso in un paese che, a dispetto della forte influenza del potere ecclesiastico, dopo il crollo del regime sovietico ha iniziato a esportare prostituzione in tutto il mondo e sul business del turismo sessuale puntella anche la propria economia. In parallelo, il “corpo delle donne”, luogo reale e simbolico di una battaglia antichissima tra integralismi e libertà sociali e individuali, che ha nei seni nudi il suo punto focale (i seni assillavano così tanto i fondamentalisti islamici iraniani al punto che imposero di tagliarli ai manichini dei negozi, come mostrava il durissimo Rough Cuts di Firouzeh Khosrovani, 2008).

In quella società dove le donne non hanno diritto di parola, ma sono solo oggetto degli sguardi e dei desideri maschili, il “femminismo” di Femen sembra riappropriarsi della parola e rovesciare contro la società maschile, cercando la solidarietà di tutte le donne,  quello sguardo di dominio che plasma l’immaginario corrente, specie sul piano mediatico. Diciamo sembra e lasciamo ad altri – e soprattutto alle donne – ulteriori analisi e approfondimenti.  Perché il rischio è che a “bucare il video” sia la sola apparenza mediatica dei corpi (statuari, o per contro, abnormi, come nella street performance di una obesa “sex bomb”) e degli slogan tracciati su di esso. Nel mentre,  si afferma un vivace merchandising Femen, con gadget di vario genere, si parla di misteriose donazioni o di più spiegabili sponsorizzazioni (come quella del loro tour in Turchia, da parte di un impresario locale di lingerie). Tutto questo, insomma, con buona pace di decenni di riflessioni e lotte delle donne.

Ma tutte queste  possibili derive, su cui il film dissemina indizi, senza, a ragione, soffermarsi, non cancellano la verità  delle violenze cui si espongono quasi come vittime predestinate e sacrificali, seguendo nei gesti anche un rituale martirologio. E’ proprio nel finale che  la complicità femminile tra la regista e le sue testimoni  riesce a squarciare il velo mediatico che le avvolge. Sahsa e le altre tornano allora prima di tutto persone, nel racconto delle aggressioni e umiliazioni, anche terribili, subite, e di cui la camera testimonia i segni fisici, ma anche dei dubbi esistenziali che le attanagliano, non solo per il passato (rispetto all’influenza esercitata da Victor) ma per il futuro ancora da costruire.

In realtà, proprio la fine di questo documentario di Kitty Green ha coinciso  (forse non  casualmente) con l’autoesilio del movimento fuori dal territorio ucraino e il trasferimento -nell’agosto dello scorso anno- del “quartier generale” a Parigi. Da allora abbiamo assistito a un processo  di “globalizzazione” di Femen  che ha trovato nuove  e coraggiose adepte nei paesi delle primavere arabe come in Brasile. Di questa nuova fase di Femen dà conto un altro recente documentario “Nos seins, nos armes” prodotto in Francia  e diretto da Caroline Fourest et Nadia El Fani, http://carolinefourest.wordpress.com/2013/03/05/nos-seins-nos-armes-2/). Se il set privilegiato dalle Femen è ancora quell’Europa, stanca e cinica, ma vagheggiata da molti loro compatrioti, il loro orizzonte è forse assai più ampio. Infine libere da “guide occulte”, esse guardano ormai al mondo intero.

TRAMA

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del femminismo. Organizzatesi per protestare contro la visione maschilista riservata alle donne ukraine, considerate suddite dei mariti o carne sul mercato del turismo sessuale, le Femen di Kiev concedono per la prima volta alla filmaker australiana Kitty Green un accesso ravvicinato alle loro vite, al dietro le quinte delle loro proteste e alle contraddizioni interne al movimento.


di Sergio Di Giorgi
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