Eleanor the Great
La recensione di Eleanor the Great, di Scarlett Johansson, a cura di Marco Lombardi.

Non è mai facile, per un attore, esordire dietro la macchina da presa: non basta aver osservato i tanti registi che ti hanno diretto, in più le aspettative del pubblico e della critica sono mediamente alte, soprattutto se l’attore in questione è un “nome”. L’esordio di Scarlett Johansson con Eleanor the Great, quindi, puo definirsi assai buono. Vero, gran parte del merito va alla sceneggiatura di Tory Kamen che è un meccanismo di precisione, suggerendo a metà storia alcuni indizi che svelerebbero in anticipo il colpo di scena finale se non fosse che il film (come succede in alcuni gialli di Dario Argento) non ti dà modo di riflettere, per come ti obbliga a vivere le emozioni delle due protagoniste; poi c’è l’eccellente 96enne Eleanor, alias June Squibb, che riesce a comunicarci costantemente la sua vitalità giovanile: al netto di ciò lo sguardo della Johansson trasuda di delicatezza, dall’inizio alla fine, a rivelare una non comune sensibilità registica.
Eleanor, dopo aver perso prima il marito, poi la sua amica del cuore, va a vivere dalla figlia, una donna insicura e un po’ coercitiva, ma è in quel contesto che conosce una giovanissima aspirante giornalista (che ha appena perso la madre) con la quale si crea un’affinità elettiva proprio perché loro sono antitetiche, come succede ai protagonisti di Lost in Translation, non a caso interpretato dalla stessa Johansson. Attraverso il loro rapporto il film mette in scena una cosa fondamentale nei rapporti umani, e nel contesto internazionale contemporaneo: il bisogno di empatizzare, cioè di mettersi nei panni dell’altro e degli altri, fino a vivere le esperienze altrui come fossero le nostre: è solo così che si possono comprendere i conflitti, e avere quantomeno la possibilità di sanarli.

di Marco Lombardi