E’ solo la fine del mondo

Ormai Xavier Dolan non ha bisogno di presentazioni di rito. Che bisogno ci sarebbe infatti di fare tanti giri di parole per parlare di un ragazzo canadese che alla verde età di ventisette anni è già arrivato a scrivere, dirigere e montare il suo sesto film (con un settimo in cantiere), dopo aver polverizzato ogni record in materia vincendo il Gran Prix della Giuria a Cannes col film d’esordio realizzato a vent’anni su una sceneggiatura scritta a diciassette?

Che gli piaccia o no (ma l’etichetta lo disturba non poco), Dolan è veramente quell’enfant prodige del cinema internazionale che la ribalta della Croisette imparò a conoscere sette anni or sono indicandolo a pubblico e critica come una delle più sicure promesse della settima arte del futuro prossimo venturo. Ruolo che il giovanotto ha in questi anni vanamente cercato di scrollarsi di dosso infilando uno dietro l’altro film asperrimi ma sempre imbevuti di idee geniali che non hanno fatto altro che accrescere quell’aura ormai quasi mitica che ne circonfonde il personaggio come un’aureola pagana.

E non fa eccezione nemmeno questa sua sesta fatica, appena arrivata nelle sale italiane dopo aver regalato al suo autore un inatteso bis nel palmares di Cannes, dove al secondo Gran Prix della Giuria avevano però fatto eco i fischi sonori di una platea delusa da quella che a molti era parsa un’involuzione manieristica più che un tentativo di ampliamento dei propri orizzonti narrativi pur nell’àmbito della confort zone di temi e ossessioni care al regista e attore di Montreal fin dai tempi dell’esordio di J’ai tué ma mère.

Una critica questa che, (ri)vedendo a bocce ferme il film lontano dai clamori rissosi e mercuriali della ribalta festivaliera provenzale, può sembrare più che azzeccata. Non fosse altro per il fatto che con È solo la fine del mondo Dolan ha scelto non solo di affidarsi a un copione una volta tanto non farina del suo ricco sacco (come già accaduto soltanto in Tom à la ferme), ma addirittura di misurarsi con la difficile operazione di adattare al cinema un testo teatrale tutto incentrato sulla forza devastante della parola e privo della benché minima azione al di fuori degli angusti spazi di un palcoscenico.

Dietro il film di Dolan c’è infatti il dramma omonimo scritto da Jean-Luc Lagarce nel lontano 1990, cinque anni prima di essere travolto dalle conseguenze di una tipica sregolatezza da fine anni ’80 sfociata ella contrazione del virus HIV. Testo teatrale che Dolan si era visto proporre da Anne Dorval, interprete del suo film d’esordio del 2009 e due anni dopo impegnata a teatro nel ruolo della madre, reagendo in un primo tempo con grande freddezza di fronte al feroce ritratto di (piccola) borghesia al massacro che è al centro della pièce di Lagarce.

Ripreso in mano cinque anni dopo (con ben altra maturità acquisita e tante esperienze di vita fatte nel frattempo), il testo gli si era mostrato in una luce del tutto diversa. Al punto da convincerlo ad accettare la sfida di tradurlo in immagini pur col rischio implicito che ogni cineasta — anche i più grandi — sa di poter correre quando affronta la scommessa di rendere cinematograficamente digeribile ciò che è nato per la parola sul palcoscenico e finisce vittima dell’asfissia e dell’afasia visuale se travasato sul grande schermo.

La storia ruota intorno al trentenne drammaturgo Louis: arrivato al successo in modo parecchio precoce (difficile non pensare a un tratto di facile autobiografia che però si esaurisce qui a detta dello stesso Dolan), dopo dodici anni di assenza da casa, decide di farvi ritorno. Ma la ragione che lo spinge al nostos verso le origini è la meno piacevole che si possa immaginare: ha infatti intenzione di comunicare alla madre e ai fratelli di essere affetto da una malattia terminale senza scampo.

Ma quando arriva a casa, per Louis inizia subito una specie di piccola Odissea in minore: ad accoglierlo non ci sono i Proci, ma qualcosa che ne mutua simbolicamente la violenza aggressiva. Dopo un iniziale ed apparente entusiasmo, i membri del clan abbandonato dodici anni prima usano il figliol prodigo al contrario come detonatore involontario di tutte le tensioni represse, le frustrazioni sottaciute e i risentimenti latenti che ne rodono l’anima da anni trasformando ciascuno di essi in belve feroci pronte a dilaniarsi l’una con l’altra.

Ed è così che, grazie al pretesto letterario del dramma di Lagarce e al gioco al massacro che i suoi personaggi allestiscono non appena il fratello fantasma ricompare tutto d’un tratto, Dolan ha una nuova occasione per riproporre alcune delle sue tipiche ossessioni tematiche che dell’immersione in apnea nei disagi assortiti di famiglie variamente disfunzionali hanno fatto una sorta di marchio di fabbrica riconoscibile dopo pochi minuti di pellicola.

La famiglia di Louis è una specie di paradigma di queste derapate esistenziali: il fratello Antoine (un Vincent Cassel ombroso e ruvido come non lo si è visto mai nemmeno nei bei polar che ha interpretato) si sente minacciato dal fratellino difficile intorno alla cui infanzia inquieta traballavano gli equilibri instabili dell’intera famiglia; la madre (significativamente senza nome a conferma di come ormai questo personaggio abbia assunto una funzione archetipica nel cinema di Dolan) lotta divisa tra un edipo di ritorno e la voglia frustrata di dare affetto al figlio perduto; mentre la sorella minore Suzanne non riesce a fare molto per trasformare in affettuosa presenza l’imbarazzo di essere quasi un’estranea per il fratello maggiore che non ha avuto il tempo materiale di conoscerla.

La sola che sembri avere un brandello di solidarietà per il povero morituro è la cognata Catherine. E non è un caso, visto che si tratta dell’unico personaggio privo di legami di sangue e perciò non chiamato a fare i conti coi cascami del passato e coi rancidi regolamenti di conti che sono le costanti schermaglie verbali in cui si avvitano gli altri membri del rissosissimo clan.

Tutti urlano la propria verità presunta. Nessuno ascolta nessuno in un egoistico gioco al massacro al termine del quale la sola cosa di cui valga davvero la pena di parlare (e cioè la «fine del mondo» annunciata che attende il povero Louis tornato all’ovile proprio per rendervi partecipi quanti dovrebbero essere devastati dall’annuncio) finisce con l’essere inghiottita dal silenzio. La vera tragedia che incombe viene castrata dallo tsunami di rancori sordi che hanno covato nella cenere del profondo e adesso si risvegliano per esigere un dazio esistenziale.

Girato febbrilmente in una sola e inverosimile settimana di lavorazione e per la prima volta nella carriera di Dolan interpretato soltanto da grossi nomi del cinema transalpino senza presenze dal mondo canadese, è indubbio che questo ambizioso È solo la fine del mondo rappresenti però un passo indietro nella breve carriera del talentuoso ventisettenne di Montreal.

Meno ardito a livello di scelte linguistiche di quanto non fosse il celebrato Mommy e inevitabilmente manieristico nel riproporre ancora una volta il tema della famiglia come camera a gas esistenziale, questo suo sesto film mostra infatti la corda proprio là dove l’indubbio talento di Dolan cerca di risolvere in virtuosismi formali l’impasse rappresentato dalla staticità del testo di partenza.

Ed ecco spiegata l’orgia di primissimi piani che intasano la pellicola durante le frequenti logomachie dei personaggi in scena per evitare che l’occhio dello spettatore si intorpidisca pensando all’apatia visiva di un palcoscenico teatrale. E lo stesso dicasi per i flashback posticci con cui Dolan cerca di arieggiare un copione asfittico e fin troppo avvitato su se stesso per non avere il fiato corto dopo l’ennesima scena madre all’interno della casa-lager.

Che si debba parlare di semplice passo falso o addirittura dar retta ai sussurri e grida che parlano già di pericolosa involuzione (come suggerito anche dai dolaniani doc) forse è prematuro dirlo. Chi vivrà vedrà. E non ci vorrà nemmeno troppo tempo per capire in che direzione si muova il talento di Montreal: da tempo sta lavorando a The death and life of John F. Donovan, sua prima avventura hollywoodiana in lingua inglese destinata forse a fare chiarezza su cosa voglia fare da grande questo giovane favoloso in costante rotta di collisione con gli splendidi fantasmi della propria creatività.

Trama

Dopo dodici anni di assenza, un giovane drammaturgo arrivato al successo torna a casa per comunicare ai membri della propria famiglia di essere affetto da una malattia terminale. La madre e i fratelli lo accolgono con grande affetto, ma il suo ritorno fa da detonatore allo scoppio di tensioni sopite da anni facendo sì che risentimenti e dubbi irrisolti tornino a galla creando un clima di enorme tensione.


di Guido Reverdito
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