Boyhood

Più che un semplice film (pur nella sua assoluta e geniale originalità) Boyhood è un insieme di esperienze che il cinema non aveva mai fatto vivere prima nemmeno al più spericolato degli spettatori. Con un obiettivo finale forse ancora più difficile da centrare dopo quasi tre ore di equilibrismi fondati sulla più semplice delle idee: e cioè trasformare la Vita stessa in una gigantesca sceneggiatura, arrivando così a celebrare quel matrimonio troppo spesso impossibile tra la finzione dell’immagine e la verità di ciò che s’immagina sia l’oggetto stesso della narrazione.
L’autore che ha deciso di cimentarsi in questo ardito gioco di prestigio travestito da cinema allo stato puro non è però nuovo a scherzetti con un analogo tasso di azzardo creativo. Tra il 2005 e il 2013 (con la trilogia composta da Prima dell’alba, Prima del tramonto e Before Midnight) il cinquantaquattrenne texano Richard Linklater aveva infatti raccontato la storia ventennale di una coppia seguendone il primo incontro, l’innamoramento e le successive crisi usando sempre gli stessi due attori in un esercizio di realismo esasperato come garanzia di verità oggettiva del racconto.
Fedele a questa privatissima ossessione del tempo e dell’urgenza di documentarne il passaggio fissandolo nella continuità fluida dell’immagine filmica, con Boyhood Linklater si è spinto ancora più in là, disorientando il pubblico con un prodotto incatalogabile che si staglia unico nel suo genere in una terra di nessuno ai confini tra il racconto autobiografico spinto fino agli estremi, il documentario esistenziale e gli orizzonti sperimentali del cinema ancora di là da venire.
In principio il suo era solo un esperimento. Budget risibile (si parla di 4 milioni di dollari), attori non professionisti salvo i due impegnati nei ruoli di mamma e papà e l’idea di fondo di raccontare il viaggio di un bambino di sei anni attraverso l’infanzia e l’adolescenza. Tutto lì. Ma col passare degli anni e con la crescita della consapevolezza che quel piccolo progetto di partenza stesse diventando qualcosa che avrebbe segnato un punto di non ritorno nella comunione tra documentario e film di finzione, Boyhood è diventato una palestra di creatività allo stato puro capace di soggiogare con la sua disarmante bellezza ogni tipo di pubblico al quale sia stato proposto. Non deve quindi stupire l’accoglienza riservatagli prima al Sundance e poi a Berlino (con l’Orso d’argento a Linklater per la regia), ma sopratutto i sorprendenti 41 milioni di dollari incassati negli USA a partire dall’11 luglio scorso, data della sua uscita in non troppe sale del paese.
Deciso a raccontare la storia di una maturazione dal primo giorno di scuola fino all’ingresso al college di un bambino qualunque di sei anni del natio Texas, Linklater ha trovato la squadra giusta per assecondarlo in quello che nel 2002 (anno in cui tutto era iniziato) sembrava il delirio visionario di un autore abituato a indagare il passaggio del tempo reale sulla pelle dei suoi attori. E così, dopo aver incassato un convinto «sì» da parte di Ethan Hawke (suo complice già nella trilogia d’amore) e di Patricia Arquette per i ruoli dei genitori, non ha dovuto fare altro che trovare un bambino adatto all’impresa, coinvolgendo la propria figlia Lorelei, all’epoca due anni più vecchia, per farle vestire i panni della sorella.
A interpretare il protagonista di questa singolare avventura creativa (anche se di fatto a esserlo sono tutti i membri della famiglia) è lo straordinario Ellar Coltrane che, col nome di Mason Evans jr., si affaccia paffuto nella pellicola quando è un bambino di sei anni per uscirne ormai maggiorenne e con barbetta incolta il giorno dell’ingresso al college, vero rito di passaggio in quasi tutte le società anglosassoni.
Nel mezzo del viaggio, autentica trasferta formativa dall’infanzia all’età adulta, c’è l’intera via crucis che ha costellato la transumanza esistenziale di ogni giovane vita dell’ultimo ventennio: dai videogiochi di dieci anni fa al cicaleccio vacuo sui social network di oggi passando attraverso la scoperta dell’amore e del sesso, l’ebbrezza della trasgressione ma sopratutto le delusioni e i piccoli grandi traumi legati alle dinamiche più o meno contorte di ogni famiglia media che si rispetti. Famiglia che qui non resta per nulla sullo sfondo ma che condiziona l’apprendistato di Mason grazie alle sue costanti e imprevedibili fibrillazioni (con i genitori che si separano creando nuovi legami, i cambiamenti di città, di scuole ma anche di stato, l’affetto di un padre eterno immaturo e il legame indissolubile con una madre un po’ ondivaga nei propri umori ma sempre affetuosissima).
Avendo convertito la Vita stessa nella sceneggiatura di un film autentico su personaggi inventati, Linklater non ha potuto evitare che la grande Storia facesse capolino insinuandosi subdola tra le maglie della sua piccola storia per suggellare la verosimiglianza dell’intera operazione con il placet dell’ufficialità. Ecco quindi sullo sfondo sfilare gli accadimenti che hanno in parte segnato dodici anni di vita americana. Dalle angosce del dopo 11 settembre alla guerra in Irak nell’era Bush passando per la campagna elettorale a favore di Obama e la sua trionfale vittoria al primo mandato. Il tutto sempre in punta di piedi, come se fosse la colonna sonora visuale di tante vite vere qualunque.
Partendo da questo impianto di disarmante semplicità narrativa e costretto a sostenere in modo credibile la scommessa di una creatività da sognatore puro, Linklater ha optato sin dal principio su un espediente tecnico che solo una squadra affiatatissima come la sua gli avrebbe permesso di poter far valere: e cioè convocare il cast ogni anno per due settimane girando una sorta di work in progress a puntate che si potesse incastrare negli impegni dei due attori professionisti senza intralciarne il lavoro su altri set.
Una scommessa che, a dire il vero, vantava già precedenti nobili cui Linklater poteva fare riferimento (oltre alla propria stessa trilogia, animata però da un diverso approccio estetico). E se a tale proposito potrebbe forse sembrare inopportuno citare il personaggio di Antoine Doinel pedinato da Truffaut nel suo divenire adulto o la monumentale crescita collettiva di un gruppo di amici nel tedesco Heimat, ben più appropriata come precedente potrà sembrare la serie di sette documentari per la TV che con l’ugualmente geniale The Up Series Michael Apted aveva girato tra il 1964 e il 2005. Con la differenza non da poco che in quel caso i quattordici ragazzini inglesi intervistati a distanza di sette anni per farli parlare dei cambiamenti intervenuti nelle proprie vite erano persone reali e che il genere di appartenenza di quel prodotto non era la fiction ma la documentaristica televisiva.
E non meno profonde sono anche le differenze tra l’approccio scelto da Linklater nella sua precedente trilogia e in questo esperimento ibrido di romanzo di formazione in stile Family Project: se là ciò che contava era la celebrazione quasi riassuntiva di una porzione di vita compendiata nelle poche ore di un incontro fugace (pur con l’insistenza molto realistica del passaggio del tempo mostrato sulla pelle stessa degli attori), quel che qui diventa vera ossessione è la celebrazione stessa del cambiamento visto attraverso il susseguirsi di eventi ordinari nelle esistenze di persone qualsiasi.
Con Boyhood Richard Linklater ha osato ancora di più: raccontando il suo coming of age come celebrazione di un insieme di riti di passaggio sui volti di attori reali che crescono e invecchiano col procedere logico e cronologico della pellicola, il regista e sceneggiatore texano ha fatto fare al cinema stesso un salto di qualità verso frontiere impensabili di comunione creativa tra l’arte di rappresentare la Vita nella finzione conclamata e la professione di fede di raccontarne il reale svolgersi come se fosse un collage di filmini di famiglia fatti però da un professionista del settore.
E se poi si aggiunge che l’intera operazione trascende gli angusti confini della semplice storia di un passaggio di età mostrato in capitoli progressivi assurgendo a moderno epos borghese di un ragazzino e della sua famiglia alla conquista di un proprio West immaginario, si può ben capire come le quasi tre ore di Boyhood travolgano come un fiume in piena lasciando alla fine qull’amaro in bocca che resta soltanto quando termina qualcosa di irripetibile nella bellezza della sua unicità.
Trama
La vita di un ragazzino texano, Mason Evans, raccontata dall’età di sei anni fino all’ingresso all’università.
di Redazione