Blade Runner
La recensione di Blade Runner, di Ridley Scott, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Chi ancora non ha visto Blade Runner (?) potrebbe risultare spiazzato da una prima visione, oggi: e non solo per la potenza del terzo lungometraggio di Ridley Scott -quella c’è anche, ovvio-, ma per la modernità sconcertante di un film di fantascienza di ben quarantatré anni fa (è del 1982) e che nonostante questo ha un ritmo pachidermico, dilatato, unendo in maniera sbalorditiva e perfetta intimismo e cupezza. Perché non va dimenticato che nel cinema e nella cultura pop Blade Runner ha ancora oggi un peso e un’importanza iconografica pari allo Star Wars di George Lucas: e no, non è un’eresia dirlo perché il film, tratto dal libro di Philip Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?, Il Cacciatore di Androidi, del 1968, ha cambiato l’estetica con cui si guarda alla fantascienza rivoluzionando in maniera copernicana il modo di approcciarvisi di scrittori e registi.
Conseguentemente, proprio per questo, è sempre più difficile riuscire a parlare di questo monolito trovando la giusta declinazione, dovendo scegliere tra le ascendenze tematiche, figurative, letterarie, tra cui ad esempio le suggestioni dal Metropolisdi Fritz Lang, che hanno permesso di immaginare un modello futuribile di città sempre anni avanti rispetto a quando la si guarda.
Ma ogni elemento culturale, ogni riferimento che Blade Runner ha preso in prestito, sono stati rimasterizzati e rimodulati dall’intuizione geniale di Scott: il rapporto uomo-macchina, la specularità tra essere umano e artificiale, la prospettiva con cui si guardava al futuro (figlia dei cinque anni di dominazione ludica tra Star Wars e Close Encounters), tutto viene problematizzato e approfondito e ammantato da un’aura romantica, e probabilmente per la prima volta si scopre che anche il cinema d’autore -perché questo è, innegabilmente, il cinema di Scott- poteva e forse doveva essere un blockbuster.
Blade Runner è un punto di non ritorno, insomma: è un mood, un modo di ripensare il cinema e rileggerlo, di studiare l’immagine, il testo e anche il marketing, insomma un vero e proprio immaginario dell’apocalisse valido per ogni epoca. Un’opera così sconfinata nelle sue implicazioni e idee da essere un capolavoro non solo nel campo del cinema, perché sconfina nella scrittura, nell’immaginario, nella prospettiva del reale.

di Gianlorenzo Franzì