Baarìa

Era giunto alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (utilizzando una formula sportiva) con i favori del pronostico. Baarìa ,infatti, era il film che possedeva tutte le caratteristiche che sembravano fatte apposta per vincere il Festival del Lido: era l’opera di un cineasta celebrato in tutto il mondo, si annunciava come uno sforzo produttivo/registico notevole, aveva alle spalle una produzione “potente”; inoltre era molto tempo che una pellicola di casa nostra non si aggiudicava il Leone d’Oro.
Nessuno però aveva fatto i conti con la giuria presieduta da Ang Lee e con lo sconosciuto regista israeliano Samuel Maoz che proponeva l’ennesimo film sul conflitto arabo-israeliano: Lebanon.
Poi sapete tutti come è andata: Lebanon era un piccolo capolavoro e ha strameritato il riconoscimento come miglior film in concorso, mentre Baarìa ha dovuto affrontare il lancio nelle sale cinematografiche senza aver incamerato l’ambito premio. Al momento in cui scriviamo non sappiamo ancora come Baarìa si comporterà al botteghino (probabilmente bene), ma tale questione fa parte più del mercato/marketing che dell’analisi di tipo critico.
Che dire su questo lavoro, se non che sembra una nuova occasione sprecata da parte di Giuseppe Tornatore, il quale ormai è sempre più innamorato del suo stile, del suo mondo espressivo, più che delle storie che intende raccontare.
Gli elementi autobiografici in Baarìa sono innumerevoli e tutti ben visibili, ma naufragano in un mare di fattori linguistici/espressivi che rendono questo lungometraggio faticoso nella sua fruizione e ridondante nella sua organizzazione visivo/narrativa. L’uso della musica poi è assolutamente soffocante e addirittura prevarica la pur robusta struttura visuale dell’opera.
Tornatore fa sfoggio di virtuosismi, di magnifici movimenti di macchina, di scene dal forte impatto emotivo ma l’impressione dello spettatore è quella di un déjà vu, di un’operazione tutta concentrata a esaltare un l cinema inteso come territorio più esibizionistico (delle proprie capacità registiche) che poetico. La retorica è presente in dosi massicce, così come le citazioni, non solo di un maestro come Bernardo Bertolucci ma addirittura del suo stesso cinema. Quest’ultimo aspetto appare imbarazzante, così come la sequela di camei che trovano la loro massima esaltazione nell’inutile apparizione di una Monica Bellucci che ormai sembra riuscire a fare solo il verso a se stessa.
Sinceramente, non riusciamo a comprendere come un talento come quello di Tornatore si possa consumare in operazioni così ovvie e prive di una reale sostanza artistica. Anche la sua Sicilia appare banale e fin troppo mitizzata, così come la connotazione politica delle disavventure del personaggio centrale non rende certo giustizia a tutti coloro i quali nel passato (ma anche oggi) hanno portato avanti gli ideali della sinistra in una terra così complessa e difficile.
Maurizio G. De Bonis
*Per concessione di www.puntodisvista.net
Recensione di Leonardo Gregorio
Attraverso le vicissitudini di una famiglia di Bagheria nel palermitano, Baaria cerca di offrire un ritratto della società italiana, partendo dagli anni Trenta fino agli anni Ottanta, passando per i momenti storici, sociali e politici più significativi del paese. Annunciato e incensato da più parti come il film più importante di Tornatore – lo stesso regista ha scritto con Pietro Calabrese un libro intitolato Baarìa. Il film della mia vita, mentre di vero e proprio capolavoro si tratta per Silvio Berlusconi – l’opera ha deluso le attese, segnatamente quelle più ottimistiche. Diciamo subito, tuttavia, che ha sbagliato le sue previsioni chi, invece, si aspettava di trovarsi di fronte a un noioso megapolpettone; il film è anzi il contrario di tutto ciò e, per restare nella terminologia culinaria, risulta piuttosto uno stuzzicante e ipercalorico intruglio. Chi credeva di doversi sorbire immagini da kolossal soporoso ha dovuto ricredersi; Baarìa in realtà possiede più “leggerezza” di quanta se ne potesse attendere. Sarebbe sbagliato accusare Tornatore di aver realizzato un brutto film: Baarìa, per certi aspetti, è fin troppo bello, fin troppo costruito, ostinatamente proteso verso la ricerca della perfezione, e proprio in questo risiede il suo limite maggiore e più grave: nella cifra stilistica all’insegna dell’eccesso a ogni costo; nel voler ostinatamente mantenere altissime gradazioni di intensità spettacolare ed emotiva; nel continuo ricorso a effettismi di sicuro impatto. Appare pertanto inevitabile lo sbocco in un risultato appiccicaticcio e non autentico.
Evidentemente, con un budget di 25 milioni di euro, l’autore deve aver pensato, e non del tutto a torto, che fosse doveroso realizzare qualcosa all’altezza del denaro investito; tuttavia è anche legittimo pensare che tale proposito sia stato esageratamente perseguito, così tanto da condizionare pesantemente l’esito dell’opera. Con Baarìa Tornatore vuole narrare – partendo dallo specifico, dal locale, dal privato – una buona fetta di storia del Novecento italiano, ma più che sbagliare il cosa sbaglia decisamente il come; più che da un punto di vista contenutistico le lacune stanno nelle soluzioni formali. La Bagheria, la Sicilia che ne vengono fuori costituiscono una impeccabile cartolina luccicante; assistiamo infatti allo scorrere rapido di immagini inzeppate di folclorismo e stereotipi; la fotografia vorrebbe essere abbacinante ma lo è al punto tale da farsi leccata e artificiosa; le musiche di Morricone, spiace dirlo, non aiutano a sollevare il livello dell’opera ma al contrario ne appesantiscono spesso l’aria smaccatamente affettata (si pensi soltanto alla musica “trionfale” che accompagna la corsa del bambino in apertura di film). Infelice è poi la scelta di voler mescolare realtà e “magia”: il secondo ingrediente contribuisce infatti a rendere Baarìa solo più improbabile (vedere soprattutto a questo proposito il finale). Inutile infine dilungarsi in considerazioni sul cast spropositatamente allargato, nonostante non manchino esecuzioni particolarmente valide come quelle dei protagonisti Francesco Scianna e Margareth Madè.
Baarìa più che opera della vita di Tornatore sembra rappresentare piuttosto una sorta di “film dei film” del regista, come confermano anche le autocitazioni snocciolate in modo compiaciuto e superfluo (che si tratti di un bambino alle prese con pezzi di pellicole cinematografiche o di una Monica Bellucci colta in pruriginosi atti con un fortunato muratore cambia poco). Ridotta a un’acritica dichiarazione di amore incondizionato e narcisistico per il proprio cinema, Baarìa, insomma, va ad aggiungere notevoli dosi di quantità alla filmografia di Tornatore ma poca qualità. È lecito a questo punto aspettarsi da un regista del suo calibro una svolta netta e decisa
Leonardo Gregorio
Recensione di Amanda Romano
Baarìa la porta del vento, Baarìa l’ombelico del mondo, Baarìa terra di memoria senza tempo. Cercando di elevare a macrocosmo dell’esistenza la città che gli ha dato i natali, Peppuccio Tornatore racconta la sua vicenda personale di ragazzo che fu, nato e cresciuto a Bagheria. Con un kolossal che ripercorre quasi mezzo secolo di storia italiana (dagli ultimi anni del ventennio fascista fino ai primi anni ottanta) il regista siciliano ci immerge in un caleidoscopio di personaggi che evocano i ricordi della sua giovinezza. C’è tutto Tornatore in questo film, lui stesso, la sua terra, il cinema che ha fatto e quello che ha amato. Una fotografia della memoria che ritrae con estrema veridicità etnografica e linguistica la Sicilia dei siciliani, le miserie della povertà contadina, gli splendori di un folclore antico e magico. Una trasfigurazione cinematografica della rimembranza che gode di una regia poderosa, barocca e spettacolare, e che vuole essere, anche, racconto epocale di una terra e metafora collettiva di sogni e valori: dall’epopea della fame in cui il sopruso fascista s’innestava naturalmente nel solco di quello mafioso, all’emancipazione dei braccianti dallo strapotere latifondista; da una politica intesa come azione pro re- publica, alla famiglia come fondamento dell’identità morale e spirituale del singolo. Nonostante l’indubbia qualità artistica del grandioso progetto tornatoriano, la pellicola presenta, però, una serie di debolezze che, inevitabilmente, lo privano dello status di capolavoro che appartiene, invece, ai classici cui si ispira. Innanzitutto, e principalmente, una debolezza di scrittura che è, in fondo, la matrice di tutte le altre. I molti dati della trama, infatti, non trovano sullo schermo un’appropriata sintesi narrativa e il film diventa così un frammentario di situazioni cui neanche il filo conduttore della storia di Peppino e Mannina, i due protagonisti, riesce a dare coesione. La difficoltà di Tornatore di condensare gli eventi in un racconto articolato, significativo ed emozionante si rispecchia in una rappresentazione bozzettistica e discontinua, fine a se stessa e affollata da “campioni” umani appena abbozzati. Dalla caratterizzazione psicologica dei personaggi principali ai fugaci riferimenti storici, dalla rappresentazione del comunismo a quella della mafia, dal sentimento familiare alla passione politica, tutto nel film è raccontato per cenni di cui si attende uno sviluppo che non arriva. A questo si aggiungono le improvvise incursioni surreali, che concorrono ad aumentare la già confusionaria struttura dei piani temporali. Baarìa, è, insomma, un film che ancora vorremmo vedere, che ancora ricerca la densità emotiva del melodramma di un Bertolucci o la tensione concettuale di un Visconti che usa il dialetto vernacolare dei pescatori di Aci Trezza per affermare, tout court, un’idea di conflitto sociale. Inoltre, a proposito dell’afflato universalistico dell’opera, ci chiediamo quanti, all’infuori dei siciliani, riusciranno a riconoscersi in una raffigurazione che affida esclusivamente al peculiare sentire isolano i suoi significati più profondi. Come può essere compreso senza incappare in semplicistiche conclusioni, solo per fare un esempio, il conciliante riformismo di Peppino, se non si è avvertita, almeno una volta nella vita, la paura della minaccia mafiosa? Intrappolato in un citazionismo storico, antropico e cinematografico spesso autoreferenziale, Tornatore si perde nel magma della sua sicilianità, rendendoci soltanto un affresco affascinante, ma sconclusionato, di ricordi.
Amanda Romano
di Maurizio G. De Bonis