Another Year
Da sempre, Mike Leigh ama la vita, e la racconta, mostrando, come pochi, prima che personaggi o tipi sociali, persone messe a nudo (‘naked’). Ama (ricambiato) i suoi attori e le sue attrici (queste ultime, è vero, forse un pò di più), e dalle loro labbra e dai loro gesti fa fluire, con naturalezza, né più nè meno che la realtà, senza zavorre ideologiche o superflui tic autoriali. Per questo, anche noi spettatori, uomini e donne, amiamo da sempre il cinema di Mike Leigh.
Con Another year il quasi settantenne maestro inglese ci regala ancora un film importante e più di altri personale, che agita emozioni sottili e profonde, parlandoci della sfida che tutti -chi ha famiglia e chi è rimasto da solo- ingaggiamo con il tempo che passa. La macchina da presa avvolge con tenerezza i volti dei protagonisti o indugia impietosa tra le loro (vere) rughe: segni di una saggezza conquistata per quanti hanno saputo coltivare i frutti della vita e del lavoro o cicatrici sempre più profonde per coloro con i quali “la vita non è stata generosa”, che girano ormai a vuoto, ma non per questo hanno perduto la capacità di amare, o almeno di sognare l’amore. Un film che (dopo la vitale esplosione di Happy-Go-Lucky) non cerca di nascondere il fondo amaro, e perturbante, della sua partitura narrativa (e musicale), peraltro percorsa di continuo da un’ironia -e a tratti da un umorismo- dannatamente inglesi. Una sceneggiatura complessa ma solidissima (molto più di quanto lasci trasparire la sua linearità, scandita dal succedersi delle stagioni), capace di spiegare con una rapida scena, una battuta, un silenzio, il mondo professionale e quello intimo di ogni personaggio, ed affidata a interpreti smaglianti -molti dei quali compagni di strada sin dall’inizio di Leigh- che a Cannes 2010 (con buona pace di Bardem o del nostro Germano) avrebbero meritato una Palma d’oro, magari come collettivo…Al pari di Leigh (dopo quella ormai lontana per Segreti e bugie), del resto.
Tom (Jim Broadbent) fa il geologo, sua moglie Gerri (Ruth Sheen) la psicologa. Entrambi scavano, per mestiere, terreni o anime. Avranno sessanta anni, o giù di lì, ma sono ancora felici, affettuosi, accoglienti. Almeno all’apparenza. Hanno una bella casetta alla periferia di Londra, coltivano un piccolo orto. Eppure i loro amici sono solo dei single nevrotici e frustrati, come Mary (Lesley Manville, strepitosa nel suo continuo overacting), una collega, appena un po’ più giovane, di Gerri (in ospedale, ma fa la segretaria, come sarà fatto notare) o Ken (Peter Wight), un tempo aitante ed ora inflaccidito dall’alcol e dal cibo. Gerri divide un bicchiere al pub con Mary, Tom gioca a golf con Ken, poi li invitano a deliziosi pranzetti e cenette a tre, raccolgono divertiti le loro lamentazioni e disperazioni, li accudiscono, li alloggiano se troppo ubriachi. Ma i loro vissuti (compiutamente svelati solo finale) restano troppo diversi e quando Mary rievoca un lontano flirt (forse solo immaginato) con il loro giovane figlio di fronte alla nuova fidanzata di questi, i due alzano barriere difensive. Gerri, soprattutto, man mano che il film procede si rivela un personaggio di grande ambiguità: una sequenza all’inizio del film la vede cercare senza riuscirvi di infrangere il muro di resistenze di una sua paziente (grande cameo di Imelda Staunton, la Vera Drake di Leigh). Ma cosa può fare Gerri per Mary? A tratti ci chiediamo se se sia davvero sua amica, o se vi sia quasi un dovere professionale che la spinge ad invitarla, a sostenerla. D’altra parte, solo Mary, come ciascuno di noi, può darsi aiuto, se lo vuole.
Nel finale è ormai inverno, quando entra in scena Ronnie, il fratello di Ken (davvero intensa la maschera di David Bradley), appena rimasto vedovo, e abbandonato anche dal figlio. La bellissima sequenza della funzione funebre porta in primo piano i fantasmi della morte e della solitudine. Per Mary e per Ronnie l’unico rifugio sarà ancora la casa di Tom e Gerri. Ma in fondo è Mary che dà calore (“lo vuoi un abbraccio”?) a quell’uomo silenzioso, ritrovando con lui complicità appena accennate. Forse non basta una casa per accogliere veramente, sembra dirci Leigh, l’importante è restare aperti e saper esprimere i sentimenti, quelli veri, che fanno la differenza, al di là delle forme sociali.
Nel frattempo, è trascorso un anno, e la vita continua, tra speranze e fallimenti. Il magistrale piano sequenza che chiude il film lascia le parole (i progetti di viaggio di nozze del figlio) sfumare nel fuori campo, per concentrarsi ancora una volta, enigmaticamente, e senza dare giudizi, come solo sanno fare i grandi autori, sul volto assorto di Mary, su quel suo sguardo ancora desiderante…
di Sergio Di Giorgi