CINEMA – Festa Internazionale di Roma- Fu zi, il film di Patrick Tam

A distanza di diciassette anni dalla sua ultima regia (My Heart Is That Eternal Rose – 1989) e alla vigilia di un’importante retrospettiva che il Far East Film gli dedicherà ad aprile, il regista Patrick Tam – promettente autore della “new wave” di Hong Kong di inizio anni ’80, memorabile regista di un’opera prima come The Swords (1979), mentore e montatore dei film di Wong Kar-Wai, prolifico realizzatore di note serie televisive, come Seven Womens – ha presentato in concorso alla 1. Festa Internazionale del Cinema di Roma, Fu Zi – After This Our Exile, un dramma familiare in 150’, interpretato dai popolarissimi Aaron Kwok, famoso ballerino e pop star cinese, di recente accreditato al cinema dal Golden Horse Award per Divergence (2005), e Charlie Young, eterea e raffinata attrice in due pellicole del Kar-Wai anni ’90 (Ashes of Time e Angeli perduti), nonché interprete di un insolito fantasy, Seven Swords (2005) di Tsui Hak.
Dopo un esilio registico quasi ventennale, durante il quale Tam ha però attivamente contribuito al montaggio di film altrui, nonché all’insegnamento e alla preparazione di nuovi talenti cinematografici, e al termine di una gestazione decennale del film, che ha conosciuto almeno cinque fasi di revisione della sceneggiatura e una serie di vicissitudini produttive, Fu Zi – After This Our Exile narra la disgregazione di un nucleo familiare, di cui è vittima soprattutto un bambino, lo strabiliante Gouw Ian Iskandar, qui al suo debutto, che assiste impotente al tentativo di fuga materno, ai maltrattamenti paterni, per poi vivere un lungo periodo affianco del padre, vagabondando per alcune antiche città della Malesia, dove da tempo il regista si è trasferito, trovandovi più di un’ispirazione creativa. Preceduto da un’intestazione, con la quale, durante i titoli di testa, l’autore invita il pubblico a immergersi nella storia senza troppi sentimentalismi, il film ha già nel suo inizio e fin dal suo titolo, le premesse per la visione e la lettura di un tema eterno e universale: il difficile e delicato rapporto padre-figlio, in cui spesso le colpe dell’uno si ripercuotono sull’altro, provocando un ribaltamento dei ruoli e un’assenza di orientamento. Se di fatto il figlio del padre, ovvero il Fu Zi del titolo, si ritrova spesso a dover ricoprire, suo malgrado, la parte di genitore, inevitabilmente questo provoca una mancanza di punti di riferimento e una perdita esistenziale, metaforicamente racchiusa nell’Exile del titolo.
Abbandonati entrambi dalla donna – nonostante i tentativi iniziali di salvare l’unione e di mantenere integro il nucleo familiare, che il regista radiografa con occhio attento, scandendo tutte le fasi di un’anatomia sentimentale vissuta in un misero e claustrofobico interno, spesso ripreso attraverso imposte e inferriate che contribuiscono al senso di soffocamento e prigionia della coppia – padre e figlio intraprendono una nuova esistenza che li condurrà a un lento naufragio e a un’agonizzante deriva. Alla separazione segue il licenziamento del padre cuoco, nonché le persecuzioni dei creditori, e quindi la decisione di partire e di abbandonare la propria casa, in cerca di fortuna altrove. Ma il viaggio di questa sorta di road movie psicoanalitico, di marca orientale, si rivelerà ovviamente fallimentare, traducendosi in un improduttivo vagabondaggio, nonché in un tragico esilio, il cui apice viene raggiunto quando il padre, disoccupato e nullafacente, istiga il figlio al furto notturno di appartamenti residenziali, per il reciproco mantenimento. Il ragazzo viene goffamente e malauguratamente beccato con le mani nel sacco e rinchiuso in riformatorio, dove successivamente il padre – che al momento dell’arresto è vigliaccamente scappato – lo va a trovare, in cerca di una riconciliazione che non trova però più alcuno ascolto e che anzi, insieme al rancoroso silenzio, scatena la rabbiosa reazione del figlio che, abbracciando il genitore, gli stacca un orecchio con un morso. Al culmine di un rapporto autodistruttivo, al termine di una parabola crudele e spietata, la moderna espiazione filiale, va ben oltre la psicoanalitica e metaforica uccisione del padre, per rinchiudersi in una malinconica solitudine, supportata esclusivamente dalla consapevolezza della perdita e del proprio esilio esistenziale.
di Redazione