L’amica geniale – Stagione 4

La recensione della quarta stagione di L'amica geniale, a cura di Carmen Albergo.

Finalmente debutta anche in Italia l’ultima stagione de L’Amica Geniale – Storia della bambina perduta. Co-produzione Rai Fiction – HBO, trasposizione Tv del bestseller di Elena Ferrante, “Il libro degli anni 2000” per il N.Y. Times. L’epilogo è noto, lo spettatore come in un loop, torna all’incipit del primo episodio della prima stagione (2018) pronto a rituffarsi a capofitto in quel dramma umano, sfuggente e ambivalente, da cui origina la cosidetta “Ferrante Fever”. Tutto è illuminato. Nel corso degli episodi, il profilo di Lenù (special guest Alba Rohrwacher) si fa sempre più esemplare, nel darsi intermediaria psichica di quel medesimo groviglio di menzogne e agnizioni, che nell’ultimo capitolo ruota essenzialmente attorno ai legami filiali.

A riprova di tutto, ogni episodio di questa stagione si conclude sempre con un suo primo piano. La sua soggettività circoscrive tutti i coprotagonisti, perchè loro distante, schermata dietro le sue grandi, simboliche lenti. Lenù nasce già aliena alla sua famiglia, è aliena alle donne e agli uomini suoi pari, perciò sopravvive loro idealmente e può “scriverne”, proprio come Lila lapidaria decreterà, “scrive solo chi desidera che qualcosa gli sopravviva” (l’integrità, per esempio, nonostante una vita in frantumi?) e lei non potrebbe.

Lila (Irene Maiorino, egregia erede del ruolo) cresce, ma non evolve davvero, non sopravvive metaforicamente all’infanzia tragica toccatele in sorte e quindi vive sia come funzione motrice degli eventi esterni, la faida mafiosa del rione napoletano, sia come mentore inaccesibile di Lenù, anzichè come una personalità che a spirale contiene e plasma tutte le se stesse a venire. Il suo “arco di trasformazione” è un buco nero, che ci è programmaticamente precluso o almeno solo accennato di riflesso, perchè più che complementare a Lenù, le è preliminare, affinchè solo lei possa sviluppare un viaggio interiore di emancipazione totale, lungo la grande cornice di 60 anni di Storia Italiana (un po’ da cliché, restituitici attraverso il tubo catodico, assiduo arredo scenico d’epoca, che fa il paio con il telefono, costante canale relazionale). Lo stesso dicasi per la prospettiva di Nino Sarratore, personaggio sovrapposto, logorante ago della bilancia tra le due (ottima interpretazione di Fabrizio Gifuni). Lenù raggiungerà nella caratterizzazione scenica le fattezze di una donna anziana, Lila no, senza soluzione di continuità tornerà ad essere visualizzata trasandata, cupa in volto, fino a sovrapporsi al fantasma della bambina che fu. Ipotizzando che sia proprio Lila e non altra, l’autentica “bambina perduta” nell’intreccio di un destino di miseria e crudeltà prescritto e senza futuro, come sarà il ramo della sua discendenza femminile. Come può sopravvivere l’animo di una bambina, che l’autrice, ha vagheggiato scaraventata fuori dalla finestra dal proprio padre-padrone?. Si inabissa e riemerge alter ego, ora come un’àncora di salvezza, ora come pietra al collo. Un qualcosa di non molto diverso da quell’infanzia perduta e stigmatizzante di C’era una volta in America di Sergio Leone.

L’imprinting magnetico da “storia di orchi e fantasmi” delle prime due stagioni, firmate da Saverio Costanzo, qui co-sceneggiatore, resta tutelare. La direzione finale di Laura Bispuri è intima, intensissima, calibrata proprio sull’obiettivo di trasmettere allo spettatore la palpabilità di un flusso continuo di considerazioni e sentimenti sottilissimi, reconditi, attraverso un montaggio ben congegnato, che stratifica visivo-sonoro al servizio di una composizione sempre incisiva, a compensazione di ripetue elissi, senza trascendere nella coercizione del melodramma, cui si era invece votato Daniele Lucchetti nella terza stagione. Fil rouge nella staffetta, compresi i due episodi di Alice Rohrwacher, l’interprete Alba Rohrwacher, per tutti loro musa di complessità ineffabile e nel caso specifico, impossibile non ripensare al precedente di Vergine giurata della stessa Bispuri. Così come tutelare e magnetica resta la colonna musicale del compositore di successi cinetelevisivi Max Richter, che potenzia la formula vincente della sigla – teaser in super 8, mix incalzante del cambio di attori e scene topiche, strategia che sin dalla prima stagione ha contribuito all’iniziazione del grande pubblico all’appassionante genealogia di Elena Ferrante. Certo la quadrilogia si chiude, ma le porte restano tutte aperte ad inimmaginabili ritorni.


di Carmen Albergo
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