Una notte a New York

La recensione di Una notte a New York, di Christy Hall, a cura di Guido Reverdito.

È sera e fa buio all’aeroporto JFK di New York. Una giovane donna, appena sbarcata, sale su un taxi in direzione di Manhattan. Il tassista prova a fare conversazione e a lei sembra non disturbare l’idea di scambiare qualche parola, nonostante Clark (è questo il nome di lui) non abbia peli sulla lingua. Lungo il tragitto, allungato da un incidente che blocca temporaneamente il traffico, il dialogo tra i due si fa più personale e l’uomo e la donna cominciano a rivelarsi cose che non hanno mai detto a nessun altro.

Prima che le macchine con la guida automatica sostituiscano del tutto i romantici taxi gialli e i loro autisti brontoloni, prima che ci risulti del tutto impossibile confrontarci anche solo per caso con chi non appartiene alla nostra bolla social, Chrsty Hall, alla sua opera prima da regista, ci tiene a ricordarci che l’incontro con un estraneo può essere un’epifania e funzionare meglio di una lunga seduta di psicoterapia.

Girato in sedici giorni, su un palcoscenico attorniato da maxi schermi che riproducevano l’ambiente esterno, Una notte a New York non si è allontanato troppo, in fase di realizzazione, dall’approccio teatrale per cui era stato pensato inizialmente. Ma, si sa, il cinema fa magie, e nel tempo di qualche secondo siamo già sotto l’effetto dell’incantesimo, capaci di credere che quelle siano davvero le luci della strada, capaci di sentirci non si sa come dentro l’abitacolo dell’auto, lungo la traiettoria che incrocia lo sguardo del tassista con quello della passeggera.

Permeato di una sottile tensione (abbiamo tutti nella memoria Collateral), il film funziona bene finché gioca con i pregiudizi e con le aspettative dello spettatore (dove sta il pericolo? Sul sedile anteriore o su quello posteriore?), sfruttando al massimo il minimo che ha a disposizione nella stretta unità di luogo: gli sguardi, il tamburellare delle dita sul volante, le unghie laccate tra i denti, il campo e il fuori campo dello specchietto retrovisore (aiuta non poco il magnetismo della protagonista, Dakota Johnson)

Risposta femminile e newyorkese a Locke, il film di Steven Knight con Tom Hardy, Una notte a New York è stato curiosamente anticipato dalla prova italiana di Barbara Ronchi in Non riattaccare di Manfredi Lucibello. Mentre nel film italiano, però, il dramma è la nota principale, e il tema è costantemente in primo piano, il debutto cinematografico di Christy Hall è inizialmente meno esplicito e più imprendibile, salvo poi risolversi nella storia di un incontro ordinariamente fuori dall’ordinario, che avrebbe fatto meglio a concludersi a fine corsa, senza indulgere in un terzo tempo melenso, da rom-com mancata. Gérard Brach diceva che la regola d’oro dello sceneggiatore è saper sorprendere. Hall, esperta sceneggiatrice di ‘It ends with us’, s’inebria forse delle sue possibilità e si cimenta con un film tutto di parola, a tratti affilato, che a un certo punto però smette sfortunatamente di sorprendere. Resta allora il lavoro di due ottimi interpreti, quello notevole della fotografia, e soprattutto il ruolo della città di New York sullo sfondo, la terza protagonista del film, che vale metà dell’opera.

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di Guido Reverdito
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