Signorina Effe

signorina_effe

signorina_effeE’ da anni che il cinema italiano parla poco di operai, fabbriche, conflitti di classe. Una disabitudine che deve aver provocato guasti seri perché poi quando un film prova a farlo il risultato è quasi sempre desolante. L’ultimo esempio è Signorinaeffe di Wilma Labate, che racconta la crisi Fiat del 1980 a Torino, con le azioni di lotta contro la decisione aziendale di licenziare 15.000 operai, lo sciopero ad oltranza durato 35 giorni e terminato con la marcia dei 40.000 impiegati e quadri che imposero la riapertura dei cancelli, la sconfitta del sindacato e della sinistra italiana, una delle più gravi della nostra storia. Insomma materia importante e complessa, piena di luci e ombre fosche, che ha coinvolto negativamente non solo i protagonisti di quei giorni ma anche, per molti aspetti, le generazioni successive. Materia che meriterebbe attenzione particolare, capacità di approfondimento e taglio di racconto non banalizzante. Purtroppo di quella vicenda così traumatica nel film resta solo uno sfondo quasi scenografico. Nel film non c’è il tocco e lo sguardo di Ken Loach (e questo vorrebbe dire nulla) e c’è purtroppo la scelta di raccontare quel momento collettivo attraverso personaggi e vicende che sembrano uscire da un vecchio film di Matarazzo, rivisto però con la drammaturgia semplificatoria e decerebrata degli sceneggiati televisivi da prima serata.
C’è Emma, figlia di una famiglia di immigrati meridionali, che frequenta l’università e aspetta le nozze con “l’ingegnere” per il definitivo salto di classe. Lei lavora alla Fiat nel settore informatico e una mattina viene chiamata in direzione; per raggiungere gli uffici si perde nei meandri dello stabilimento, attraversa un’officina e si trova così – pensate che idea – davanti alla “classe operaia” e nel mezzo di uno sciopero selvaggio (c’è addirittura un operaio che la “tocca” sporcandole di grasso la camicetta). C’è un dirigente Fiat che parla e si comporta come il padrone delle ferriere (prima progressista per amore, poi vendicativo per gelosia). Ci sono gli operai e i borghesi che sembrano figurine di un album Panini. Questione di complessità e di incapacità del cinema a rappresentarla se non mediante semplificazioni inammissibili.
La Torino e l’Italia degli anni Ottanta non erano così: c’era già stato il ’68, c’era stato il ’77, c’era stata la liberalizzazione delle università che aveva ingolfato le Facoltà di figli di operai. Nelle famiglie e sui posti di lavoro non si parlava con quelle frasi fatte e non ci si comportava e divideva così schematicamente. E sul versante politico e sindacale il dibattito e lo scontro non erano primitivi e schematici come appaiono nel film: c’era la paura e la voglia di riscatto, la ribellione e il senso d’impotenza di chi doveva fare i conti con le forze in campo, c’era il sindacato messo alle corde dall’azienda (più brutale e cinica che mai) e dalle spinte interne più estremiste, c’era il PCI trascinato su terreni altrui e costretto a rivedere la strategia (“meglio sbagliare con gli operai che avere ragione con i padroni”) e ci fu – prevedibilissima – la sconfitta, e poi il compromesso a ribasso, l’unico possibile.
Lotta epocale ed esito finale drammatico, forse irreversibile. Labate e i suoi sceneggiatori raccontano quei fatti inseguendo storie e storielle risibili, quasi imbarazzanti, indugiano sul privato più scontato, semplificano i comportamenti e le reazioni, banalizzano addirittura i sogni. E di semplificazione in semplificazione, di concessione in concessione, si arriva non solo alla rimozione delle vere responsabilità ma anche a qualche mistificazione. Nel film si preferisce sottolineare l’arroganza dei dirigenti Fiat o il cinismo delle conversazioni nei salotti borghesi, e si sorvola invece sulle connivenze (quelle sì gravissime) dell’azienda torinese con i gruppi eversivi che provocavano volutamente gli incidenti ai cancelli. I mazzolatori che nel film vanno ad assaltare di notte i picchetti degli scioperanti hanno alla loro testa il padre e il fratello di Emma. Che pensano soprattutto a salvare il matrimonio della ragazza con l’ingegnere. Dato che un certo impaccio nel rappresentare gli operai si poneva anche (pur se in termini meno gravi) in Mio fratello è figlio unico, e che è fuori discussione la buona fede e la professionalità di Wilma Labate, il problema evidentemente è generale e riguarda il cinema italiano. Gli operai, gli sfruttati e i conflitti di classe in Italia continuano ad esserci (alla Thissen come ai call center), mancano i film capaci di raccontarli.


di Piero Spila
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