Missione di pace – Film chiusura – Fuori Concorso 26a Settimana Internazionale della Critica
Il Capitano Vinciguerra guida un manipolo di soldati in una missione nei Balcani per catturare un criminale di guerra, latitante dalla fine del conflitto nella ex Jugoslavia. Quello che il Capitano non può immaginare è di dover affrontare la sua missione a fianco del suo peggior nemico: suo figlio, un agguerrito pacifista. In questa situazione di avventurosa convivenza, tra mangiatori di orsi e partite di Risiko, carri armati fuori controllo, sogni di rivoluzione e Che Guevara in crisi, padre e figlio affronteranno la loro guerra personale.
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La recensione di Mariella Cruciani
Marco Bellocchio, in occasione della consegna del Leone alla carriera, ha dichiarato in merito al cinema italiano attuale: “Tutti si buttano sulla commedia perché ha avuto successo invece bisognerebbe cercare strade nuove”.
Il regista de “I pugni in tasca” ha certamente ragione anche perché, nella maggior parte dei casi, la commedia finisce, oggi, per identificarsi spesso con prodotti cinematografici leggeri, inoffensivi, superficiali.
Fortunatamente, Missione di pace, opera prima di Francesco Lagi, pur esibendo le caratteristiche esteriori del genere in questione, risulta tutt’altro che inutile o banale. Il film racconta due conflitti: quello di un improbabile manipolo di soldati, guidati dal Capitano Vinciguerra (Silvio Orlando) in una missione nei Balcani per catturare un criminale di guerra e quello, privato, tra lo stesso Capitano e suo figlio Giacomo (Francesco Brandi), agguerrito pacifista. Padre e figlio, per una serie di circostanze fortuite, si troveranno loro malgrado a convivere e riusciranno a stanare, insieme, il famigerato ricercato. Se, in questa parodia, Silvio Orlando è un militare in vestaglia da camera e il soldato Pettariello (Alba Rohrwacher) ha un’aria poco marziale, ancor più il figlio del Capitano colpisce per la disarmante ingenuità e buonafede. Emblematici, al riguardo, i suoi sogni ad occhi aperti nei quali lo vediamo riporre una fiducia illimitata in uno Che Guevara (Filippo Timi) cialtrone e demotivato che, anziché spingerlo all’azione rivoluzionaria, lo invita al Bar della Pasquina.
Le sequenze oniriche costituiscono una delle parti più divertenti e riuscite del film: quando Giacomo e il suo alter-ego ideale, a tavolino, stabiliscono la lista dei ministri ( Marx all’economia, Gramsci agli esteri, Pasolini all’istruzione, Maradona allo sport…), non si può non sorridere. Insomma, Lagi mette alla berlina sia i soldati pasticcioni sia i pacifisti confusi e velleitari: “I personaggi sono senza direzione, tutti delle zucche vuote che hanno bisogno di un’autorità fuori di loro”. Alla fine, però, i due opposti mondi riescono ad interagire positivamente: il figlio del capitano collabora con i soldati ma, poi, loro lo aiutano a piantare, nel bosco, un simbolico albero della pace. Come dire che, al di là dei reciproci pregiudizi, esiste un senso di umanità comune a tutti.
Mariella Cruciani
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La guerra o piuttosto un’operazione militare come non l’abbiamo mai vista. Questo è in buona sostanza il proclama semiserio di Missione di pace. Come non l’abbiamo mai vista, certo, perché non c’è niente di già visto in questa performance di soldati senza arte né parte simili ad altrettanti personaggi in cerca d’autore, a metà strada tra Pirandello e Beckett, Monicelli e Altman, che si sforzano di sembrare quello che non sono né possono illudersi di essere. L’esordiente Francesco Lagi non vuole riproporre un’inoffensiva e tutt’altro che “sporca dozzina” secondo gli standard eroici tradizionali, e la sua visione ridanciana dell’universo militare trova conferma nei personaggi: l’ufficiale improbabile interpretato provocatoriamente da Silvio Orlando, che non a caso non ha la “statura” del capo o del duro, o la giovane recluta affidata, per analoghe ragioni, alla figura gentile e poco marziale di Alba Rohrwacher.
Eppure, anche sul fronte opposto non è che le cose stiano tanto meglio: il giovane contestatore altri non è che l’imbranato, antipatico figlio del colonnello, che così dimostra di essere un velleitario un po’ sciocco, un figlio di papà viziato, cresciuto dispettosamente nell’ambiente delle Forze Armate, che come si è detto risultano a loro volta poco “forti” e molto “disarmate”. Il film, nella sua spigolosa leggerezza, non risparmia dunque nessuno: né i soldati, né i pacifisti, né – bisogna aggiungere – i capolavori della storia del cinema (dal tarkovskiano Andrej Rublev, evocato espressamente nella scena della piccola chiesa ortodossa in pietra appena ricostruita, cui viene restituita una campana, salvo poi essere daccapo sconquassata, al classico altmaniano M.A.S.H.) o i miti standardizzati che hanno infuocato intere generazioni di giovani militanti di sinistra (pensiamo al Che Guevara messo alla berlina da Filippo Timi con il suo roco e solenne timbro vocale contraddetto dall’attaccamento alle cose più banali, comuni e ordinarie). Insomma, un esperimento di azzeramento sferzante di un immaginario cinematografico e ideologico, civile e politico, trattato come una scampagnata appena dissimulata in una ex Jugoslavia che molto assomiglia, e probabilmente è, una location ricavata in un altrove italiano mimetico, come ai tempi dei picareschi western “spaghetti”.
(Anton Giulio Mancino)
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Francesco Lagi si è diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ha fatto alcuni corti (fra cui Passatempo), alcuni videoclip (per i Tiromancino, Bugo) e regie teatrali (L’asino d’oro da Apuleio e L’Apocalisse da Giovanni). Ha scritto per il cinema e la tv. E’ uno dei registi del film a episodi 4-4-2 Il gioco più bello del mondo (2006).
di Redazione