In the Cut

In the cut di Jane Campion non è semplicemente, come è stato scritto, un thriller erotico, bensì, molto, molto di più: in quest’ultimo lavoro della regista neozelandese, infatti, le indagini su un efferato delitto si rivelano ben presto l’occasione per una serie di riflessioni psicologiche ed esistenziali.
Il risultato complessivo è quello di un’opera solida e disturbante, vicina, per contenuti ed atmosfere, a film estremi qualiRomance di Breillat, La pianista di Haneke, Parla con lei di Almodovar o, persino, L’impero dei sensi di Oshima. In tutti questi casi, la passione non è qualcosa di cui l’Io dispone ma è qualcosa che dispone dell’Io, che lo incrina, che lo apre alla crisi: è lo scontrarsi con la violenza del desiderio, la seduzione della carne, il potere di morte contenuto nella potenza stessa della vita.
Pan, il dio della sessualità, è anche il dio del panico: come espressione pura e semplice dell’istinto, la sua irruzione segna il collasso della ragione, il disordine nel cuore stesso dell’ordine, il cedimento dell’Io. E’ proprio questo che sperimenta Frannie Avery (Meg Ryan), insegnante universitaria di New York quando, in seguito ad un delitto avvenuto a due passi da casa sua, conosce il poliziotto Malloy ((Mark Ruffalo).
Tra i due esplode una passione irrefrenabile, che cancella e confonde ogni senso di realtà: ad un certo punto, anche lo spettatore non capisce davvero più se Malloy sia un rude detective o, invece, lo spietato assassino da lui stesso ricercato. Questa stessa impressione, in altri momenti, si ha con tutti gli altri personaggi maschili del film: il ragazzo di colore, l’amico nevrotico di Frannie, l’altro poliziotto. Del resto, la stessa protagonista non sembra aliena dalla tentazione della violenza quando, al culmine della passione, mette le manette al suo amante e prende a calci la sedia, in una citazione di un’altra pellicola tutt’altro che rassicurante: Luna di fiele di Polanski.
In definitiva, In the cut appare come una vera e propria summa di tutti quei film in cui Eros è tutt’uno con Tanatos. La seduzione è un’arma a doppio taglio – recita la locandina italiana del film di Jane Campion, un modo semplice per esprimere il concetto già cantato da Jeanne Moreau in Querelle di Fassbinder: Ognuno uccide ciò che ama. La sessualità, allora, si fa interprete non tanto del gioco dei sensi, quanto dei confini dell’Io: entrando in contatto con l’altra parte di sé stesso, l’Io cede il suo limite per ribadirlo, se non viene inghiottito, ad un livello superiore. La pericolosità insita in ogni tipo di relazione amorosa è espressa, nel film, chiaramente nella sequenza in bianco e nero del ricordo – incubo di Frannie. Quest’ultima rivive, in sogno, l’incontro, sulla neve, di suo padre e suo madre: l’uomo corteggia la donna e le chiede di sposarlo, poi la fa letteralmente a pezzi, passandole sopra con i pattini. Il terrore nasce, dunque, dal sentirsi in balìa dell’altro: la sessualità non è, qui, vicenda di corpi ma traccia di una lacerazione insopportabile alla quale si tenta di sfuggire attraverso l’amplesso. In questo senso, il nemico non è più tanto l’altro, amato/odiato, quanto la potenza del proprio desiderio: Frannie Avery sembra riprendere e far sue le parole di Ada in Lezioni di piano – Ho paura della mia volontà, di quello che potrei fare, è un impulso strano e forte…
Se nel film del 1993 Jane Campion mostra Ada e il suo piano, almeno all’inizio, come un mondo impenetrabile, un sistema narcisistico intoccabile, in In the cut la protagonista non fugge e corre tutti i rischi connessi all’ incontro-scontro con l’altro. Insomma, come sempre avviene per il cinema d’autore, anche nell’opera di Jane Campion è possibile cogliere una sorta di percorso e di evoluzione psicologica, artistica, umana: non resta che attenderne, con curiosità e interesse, la prossima tappa.
di Mariella Cruciani