Giurato numero 2
La recensione di Giurato numero 2, di Clint Eastwood, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Giurato numero 2, di Clint Eastwood, distribuito da Warner Bros Italia e uscito in sala il 14 novembre, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«A 94 anni, in quello che potrebbe essere il suo ultimo film, Eastwood trova una sintesi perfetta, con un’opera classica e limpida nella forma, più che contemporanea nello sguardo e di bruciante attualità nell’affrontare i temi della giustizia, della verità e della morale nelle società attuali. Un preciso ragionamento politico e umano che non penalizza mai una storia avvincente e una scelta personale tutt’altro che semplice».
La recensione
di Martina Volpato
A tre anni di distanza da Cry Macho, Clint Eastwood ritorna alla regia, alla veneranda età di 94 anni, con Giurato numero 2, un thriller processuale, eletto dai più con romantica rassegnazione a film testamentario, a maiuscolo addio per pensionamento forzato, a suggello definitivo a una carriera unica e imperitura, con cui ha sconfinato nell’immaginario collettivo nella sua filiforme e indolente sagoma iconica di interprete e ha composto il suo personale grande romanzo americano, scandagliando gli Stati Uniti dal sogno infranto, dove l’individualismo democratico, in cui Eastwood ha riposto la sua fede, viene incrinato dalle ombre dell’intolleranza razziale, dalle ottusità di un sistema ipocrita e sordo agli eroi, dai nemici interni a un paese che ha smarrito l’intransigenza dei suoi valori costitutivi.
Giurato numero 2, estraneo alla forma dell’epitaffio coriaceo o del languido canto del cigno (con cui poteva essere scambiato con sbrigativa facilità Cry Macho), si avvale di una sceneggiatura pressoché inappuntabile di Jonathan Abrams, già da tempo circolante a Hollywood e non ispirata a un fatto di cronaca giornalistica, a differenza di altri film di Eastwood: un congegno narrativo di cupo ma non claustrofobico gioco a incastri mosso da una mano ineluttabile (quella della Giustizia che apre il film, quella del passato e della Necessità che bussano alla porta), permettendo al regista di dispiegare un serrato cul-de-sac giudiziario, eludendo ogni traccia di moralismo.
Savannah, Georgia. Il giovane Justin Kemp (Nicholas Hoult) viene convocato come giurato in un processo contro un presunto assassino che avrebbe ucciso la fidanzata una sera sul ciglio della strada, sotto la pioggia scrosciante. Ma nel corso del dibattimento il protagonista si rende conto, atterrito, di essere coinvolto direttamente in questa vicenda di concatenanti e fatali casualità: forse quello che Kemp ha investito non era un cervo, la sera stessa del decesso e proprio nel luogo in cui è stata rinvenuta la vittima, forse potrebbe essere condannato al posto dell’imputato per omicidio stradale, con una severa pena carceraria.
Se il cinema di Eastwood si situa da sempre allo scoccare della mezzanotte nel giardino del bene e del male, Giurato numero 2 può esserne il teorema più compiuto e avvincente, con un personaggio emblematico ed eclatante per imprevedibile opacità, dove l’equilibrio morale tra involontaria colpevolezza e labile innocenza scorre sul filo di una regia che, in asciutta osservanza dei meccanismi di genere, scompagina le carte con colpi di scena, assilla il tempo bergsoniano di Kemp, intreccia a mosaico i punti di vista dei giurati, del pubblico ministero, della difesa, dell’accusato, che sfumano e si compenetrano, fino a comporre, con ineguagliabile coesione espressiva, la summa di un capitolo di etica a stelle e strisce che è anche la sineddoche di un Occidente al bivio. E in questo metaforico stato della nazione Kemp, che dichiara di essere cambiato rispetto a quattro anni fa (la durata di un’amministrazione presidenziale negli States), incarna, per l’autore, il potere al vertice, intercambiabile senza la speranza di rinnovamento sociale e culturale, in una frizione perenne tra cittadino e istituzioni con le loro contraddizioni.
Non siamo nei meandri di Rashōmon, ma in quelli della lezione dei maestri americani riveriti da Eastwood, tra Anatomia di un omicidio di Otto Preminger e La parola ai giurati di Sidney Lumet da cui il regista, con la classicità formale che gli è propria, estrapola sotto la luce della contemporaneità le scorie di devianza rispetto alla Storia, dove il pensiero e i sentimenti dell’umano trovano il loro scacco nell’hic et nunc, nell’appiattimento di un presente nichilista e, direbbe Bauman, liquido, tra i giurati che vantano competenze investigative tramite le serie crime e accelerano su un verdetto sommario per non consumare altro Tempo, un mantra senza respiro che azzera ogni trascendenza, anche verso la vita e la morte. E, a differenza del film di Lumet, la parola perde la sua preminenza logica e la sua forza argomentativa, arretrando fino all’immediatezza della visione non filtrata da altri strumenti di conoscenza (un testimone oculare impressionabile, un banale sopralluogo sulla scena del delitto), fino al pregiudizio e alla voracità di vendetta.
Un legal movie tutto virato sulla doppiezza (il numero due del titolo, due potenziali colpevoli, entrambi con un trascorso problematico, indagini parallele, una gravidanza gemellare, un pubblico ministero e un giurato che si giocano la carriera o l’esistenza su questo caso) che Eastwood traduce visivamente con recise vibrazioni chiaroscurali, ad opera della fotografia di Yves Bélanger, che subentra in continuità al lavoro del fidato Tom Stern: ombreggiature livide e dense affrescano l’incubo del protagonista, fino ad affievolirsi simbolicamente nella seconda parte del film (quasi risolutiva), mentre Eastwood, invisibilità della cinepresa alla mano, conduce lo spettatore da un approdo all’altro in questo viaggio ulissiaco tra verità e giustizia, tra senso di colpa e (in)fedeltà alle istituzioni, ma anche tra Fortuna e Caso (la dea bendata raffigurata all’inizio, le monetine lanciate a terra, con una certa assonanza con Match Point di Woody Allen), in una torsione di capogiri processuali.
Giurato numero 2 si apre con due richiami all’oscurità di sguardo (e di coscienza) e prelude di congedarci con un insostenibile assioma di diritto, in una spuria e amarissima messa in quadro della vicenda narrata; ma, nello smarrimento demagogico e nel cinismo dell’individualismo antieroico, ecco un finale tagliente, sul crinale della soglia (come in American Sniper), dialettico, sospeso ed eloquente, inedito per Eastwood; quasi un assolo di jazz, un imperativo categorico modernissimo che pare sottrarsi idealmente al presunto commiato dal cinema. Ancora una volta la mano (registica) di un giustiziere non senza nome sferra il suo ultimo, ma sogniamo non definitivo, colpo (di scena).
di Martina Volpato