Fino alla fine
La recensione di Fino alla fine, di Gabriele Muccino, a cura di Guido Reverdito.
Tutto in una notte. O quasi. Come recita il trailer del film, “basta un attimo per cambiare una vita”. Ed è quello che succede alla giovane protagonista del nuovo film di Gabriele Muccino, tornato a scrivere e dirigere a quattro anni di distanza da Gli anni più belli e a sei da A casa tutti bene, titoli intervallati dalla fortunata parentesi televisiva della prima stagione della serie spin-off tratta appunto da A casa tutti bene.
La ragazza in questione è Sophie, americana con un passato travagliato che l’ha segnata nell’anima e nel corpo, in Italia per una sorta di “vacanza intelligente” (fatta di noiosi tour tra chiese e monumenti vari) inflittale dalla sorella Rachel, la quale la controlla vigilando su di lei come una specie di guardiano travestito da angelo custode. Il giorno prima del rientro in patria, le due fanno rotta su Palermo: il piano è visitare l’ennesima cattedrale di una lunga serie. Ma Sophie ne ha abbastanza. Chiede e ottiene di poter andare mezz’ora al mare a fare un tuffo. Scelta però che si rivelerà un detonatore sinistro: lì infatti si imbatte in Giulio e la sua congrega di sodali alquanto fuori controllo. L’attrazione per il giovane virgulto siceliota è fatale: di nascosto dalla sorella, Sophie accetta di incontrarlo anche la sera, senza però anche solo poter immaginare che quanto accadrà nel corso della notte sarà un insieme di avventure per lei inimmaginabili, in un’escalation di violenza alla quale acconsentirà con inattesa temerarietà.
Scritto da Gabriele Muccino insieme a Paolo Costella, Fino alla fine è un adattamento piuttosto libero di Victoria, film sperimentale tedesco diretto nel 2015 da Sebastian Schipper, la cui particolarità era quella di essere stato realizzato con un unico piano sequenza lungo due ore girato nell’arco di una sola giornata e con una sceneggiatura di dodici pagine e dialoghi improvvisati dal quintetto degli attori. Una scelta registica alquanto ardita che nel film di Muccino non ha lasciato eccessiva traccia, mentre prevale la tendenza a saltabeccare da un genere cinematografico all’altro, passando da toni romantici che richiamano quelli del Muccino de L’estate addosso, al thriller adrenalinico corretto dalle coloriture del melodramma. Il tutto frullato a ritmi fin troppo concitati che spingono narrazione e recitazione a risultare quasi sempre sopra le righe.
E se un difetto lo si vuole trovare nell’intera operazione presentata in anteprima alla Festa del cinema di Roma, sta proprio in questa fibrillazione parossistica che non regala mai un attimo di tregua (fatto salvo l’inizio volutamente compassato) né tantomeno un cambio di passo, imprimendo così alla recitazione un ritmo costantemente isterico ed esasperato che porta lo spettatore ad assuefarsi alla battuta urlata con foga e sgonfia per contrasto involontario lo sperato effetto adrenalinico.
La velocità forzata della comunicazione verbale tra i cinque giovani attori ha però una sua coerenza a livello di scrittura (anche se non del tutto positiva) nella trasformazione fin troppo brusca e repentina che la penna di Muccino e Costella hanno imposto alla propria protagonista: presentata come una tipica teenager dei nostri giorni con tutto il bagaglio di fragilità patologiche e insicurezze caratteristiche della generazione Z, dopo l’incontro con Giulio e i suoi amici fuori di testa, l’americana si trasforma tutto d’un tratto in leader carismatica capace di fare sempre la cosa giusta per rimediare agli errori commessi dal resto dell’improvvisata e irresponsabile gang. Un cambio però francamente troppo radicale per risultare accettabile come l’esito dell’evolversi fisiologico di un profilo umano in progressivo modellarsi lungo le varie fasi di una sceneggiatura. Se queste possono sembrare parziali zavorre che impediscono a Fino alla fine di decollare arrivando dove forse avrebbe avuto la possibilità e l’ambizione di assurgere con una diversa gestione del materiale narrativo a disposizione, a favore di Muccino va però detto che una volta di più il regista romano dimostra di essere un fuoriclasse non solo nella gestione molto muscolare delle scene d’azione (memorabile un piano sequenza di una fuga a due) e dei movimenti di macchina in relazione alla collocazione spaziale dei suoi personaggi, ma anche nella capacità che ha sempre avuto – fin dai lungometraggi degli esordi Come te nessuno mai e L’ultimo bacio – di scegliere e dirigere al meglio fisionomie attorali perfette per raffigurare la sua personale versione di meglio gioventù in costante travaglio interiore.
di Guido Reverdito