Cane randagio

La recensione di Cane randagio, di Akira Kurosawa, a cura di Roberto Baldassarre.

Cane randagio (Nora inu, 1949) è un poliziesco che ha attinto dai codici dal noir del cinema americano, ma al contempo con una struttura narrativa simile a Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica [ndr.: il film comunque uscì in Giappone soltanto due anni dopo]. Ambedue i protagonisti subiscono un furto, e sono privati di un oggetto fondamentale per il loro lavoro. E la ricerca dell’oggetto rubato è il necessario tramite narrativo non solo per incrementare la suspence (chi è il ladro? Si riuscirà a fermarlo prima di altri spargimenti di sangue?), ma anche per descrivere etnologicamente e moralmente il Giappone.

È una Nazione in gran parte disorientata, da poco uscita dalla Seconda guerra mondiale. Ci sono reduci che sono riusciti a integrarsi nuovamente nella società civile, come Murakami, e altri rimasti traumatizzati dalle violenze della guerra. Emotivamente fragili, come esplicita la scena in cui i detective Sato e Murakami leggono i fogli diaristici del criminale, sono reduci diventati irrequieti, sbandati, pronti ad attaccare come cani randagi. Non è errata definire questa Detection Story come “anatomia di un criminale” (e di una Nazione), parafrasando il titolo distributivo italiano del successivo – e più maturo – poliziesco Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku,1963). L’analisi di Kurasawa e del co-sceneggiatore Ryuzo Kikushima certamente non è sottile e minuziosa come imporrebbe il termine figurativo di “anatomia”, però la narrazione e l’osservazione sono di una fredda determinazione, come la perseveranza di Murakami nella ricerca della pistola sottratta. La regia, coadiuvata dal direttore della fotografia Asakazu Nakai, nel dipanarsi della vicenda ha una messa in scena razionale, a tratti rigorosa nella composizione dell’inquadrature (posizionamento degli attori e dello sfondo come elemento drammaturgico marcato), e le perlustrazioni di Murakami nei bassifondi di Tokyo hanno accenni documentaristici, non dissimili ai film neorealisti che pietosamente catturavano la povertà delle borgate (e di tutta una società post-guerra). Osservazioni etnologiche, tratte dallo sguardo del protagonista, che ci informano anche dei primi cambi che stanno avvenendo nella società: il vestire all’occidentale. La metafora è demandata agli agenti atmosferici: una soffocante estate torrida che snerva e sfibra; la pioggia torrenziale come escamotage per identificare il criminale, ma ugualmente come catarsi; il cielo cupo nei momenti dubbiosi del protagonista, e sgombro e solare nel finale di speranza. Da aggiungere però che, sebbene la trama usi il codificato genere noir americano, e la struttura narrativa si rifà al neorealismo italiano, Cane randagio, in maniera originale, pone le basi per i futuri Buddy Cop Movies. Una coppia di poliziotti di differente mentalità professionale (Sato inizialmente ci viene presentato come un Detective che pare poco incline al lavoro, interrogando amichevolmente la colpevole) e di età, a evidenziare la saggezza e pragmaticità di uno e l’impulsività e irruenza dell’altro. Con un finale che sancisce come il loro rapporto lavorativo poi sfoci in amicizia. Soltanto nella coda finale la struttura narrativa abbandona le fisionomie del neorealismo per recuperare lo sviluppo della suspence tipica dei thriller di Alfred Hitchcock. Esemplare, in questo caso, la sequenza nell’hotel dove alloggia il criminale. Una superba costruzione di montaggio, tutta giocata sull’attesa del Detective Sato di poter parlare al telefono con Murakami, e sull’entrata fisica dell’assassino mentre scende le scale, che vediamo solo dalle scarpe. Suspence corroborata anche da una fotografia marcatamente plumbea, debitrice dell’espressionismo.

Eppure, in questo raziocinante rilievo poliziesco, Cane randagio non rilascia osservazioni moraliste sul colpevole, che, come si vede alla fine, è soltanto un povero derelitto piangente come un bambino. Tramite l’asserzione di Murakami, nel quale dice “Non ci sono malvagi, ma ambienti malsani”, Kurosawa lancia un’accusa verso lo Stato, che non è capace di curare e/o riabilitare quella parte di popolo allo sbando, abbandonandoli a se stessi ed emarginandoli nelle periferie. 


di Roberto Baldassarre
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