Eddington

La recensione di Eddington, di Ari Aster, a cura di Guido Reverdito.

L’Eddington del titolo è un piccolo centro nell’assolato New Mexico. Tutto filerebbe liscio e ci si troverebbe probabilmente di fronte a un tipica vicenda da sonnacchiosa provincia americana, se non fosse per una serie di dettagli non irrilevanti: siamo nel 2020, la pandemia di Covid-19 è arrivata da poco anche da queste parti creando le inevitabili frizioni tra chi vorrebbe contenerne la diffusione con rigore e chi invece la prende sottogamba e mostra profonda insofferenza verso le restrizioni imposte a macchia di leopardo dal Governo federale. Ma se non bastasse la pandemia, a gettare ulteriore benzina sul fuoco ci si mettono anche le tensioni tra cittadini e Polizia per l’allora recente uccisione di George Floyd e la nascita del movimento Black Lives Matter.

A fare da correlativo oggettivo a questo clima rovente (non solo a livello atmosferico) ci pensano poi le due massime autorità del piccolo borgo: da una parte lo sceriffo Joe Cross e dall’altra il sindaco Ted Garcia, nemici per la pelle ma soprattutto impegnati in una campagna elettorale per diventare i primi cittadini di Eddington. Trumpiano e rude vecchia scuola il primo, paladino della modernità e del politicamente corretto il secondo, tra i due non c’è solo contrapposizione ideologica, ma anche vecchia ruggine personale dovuta al fatto che l’attuale moglie dello sceriffo era stata in passato la bella del sindaco. Il cocktail ha ingredienti di base esplosivi. E non è certo una sorpresa che alla fine ci scappi inevitabilmente il grande botto.

Tra il 2018 e il 2019 l’oggi quasi quarantenne newyorkese Ari Aster si era ritagliato un posto di tutto rispetto nell’àmbito dell’horror autorale firmando a raffica due cult del calibro di Hereditary – Le radici del male e Midsommar – Il villaggio dei dannati. Ma il suo nome era finito sulla bocca anche di quelli che non frequentano i sussulti del cinema dell’orrore quando due anni or sono aveva sfornato il fluviale Beau ha paura. Prodotto questo difficile da etichettare a livello di generi cinematografici che aveva avuto l’indubbio merito non solo di attirare l’attenzione globale sul suo autore per l’originalità bizzarra della sua sceneggiatura, ma di dividere in maniera radicale la critica tra quanti avevano gridato al capolavoro e quanti invece avevano bollato di astrusa cerebralità quella che forse è una creatività barocca e convoluta ma venata di genialità.

E se in quel film da lettino freudiano indagava le psicosi del suo protagonista spingendo lo spettatore a riviverne il continuo saltabeccare tra realtà e allucinazioni oniriche, in questo western metropolitano con finale da horror splatter Aster sembra aver voluto travasare quelle tematiche sul piano di un microcosmo urbano in subbuglio nel quale le visioni stralunate del povero Beau diventano la sintassi sgangherata di un vivere (in)civile fatto di opposti in conflitto tanto quanto i deliri di Beau lo erano con la Vita vera. E a conferma di questa linea rossa che unisce i due film c’è anche il ritorno di Joaquin Phoenix, di nuovo protagonista qui nei panni di un loser da manuale che in apparenza sembra un mansueto tutore dell’ordine ma che invece si trasforma in belva scatenata quando tutto diventa troppo e il magma di anni di repressione interiore produce un’eruzione di violenza inaudita.

Aster usa il piccolo borgo di Eddignton come cartina di tornasole per raccontare l’America di oggi, vittima forse incolpevole di una polarizzazione estrema che da più di vent’anni sta spaccando il paese in due senza che vi sia in vista una qualche ipotesi di riconciliazione urbana tra chi sbraita aggressivo da una parte e chi invece fa spallucce da snob altezzoso dall’altra. Il confronto tra lo sceriffo e il sindaco è la rappresentazione in minore di questo iato antropologico creatosi a forza di estremizzazioni di opposte visioni: da una parte il positivismo liberal e finto-progressista di chi ha trasformato in Bibbia le esagerazioni del politicamente corretto, e dall’altra il conservatorismo gretto di un’America suburbana legata a valori sorpassati e ad antiche idiosincrasie ideologiche tornate però i auge grazie al doppio mandato presidenziale di Donald Trump.

Ma Aster non si riduce soltanto a usare questo duello da neo-western per raccontare i contrasti insanabili di un paese in rotta verso lo sfracello. Intorno ai due protagonisti volteggiano infatti come falene stordite dalla luce una serie di personaggi minori che hanno però il compito di rimpolpare un menu narrativo già abbastanza ricco con divagazioni tematiche che ne dilatano le dimensioni contribuendo a fornire carica esplosiva in aggiunta al preparato destinato al gran fuoco d’artificio del finale.

Se per quasi un’ora si ha come l’impressione che il mix tra grottesco e caricaturale faccia pensare di essere finiti per sbaglio dentro un film dei fratelli Coen prima che si separassero, col passare dei minuti e con la progressiva perdita di controllo da parte dello sceriffo/novello Beau, la violenza cieca prende il sopravvento. Tutto accelera in maniera parossistica preparando gli eventi all’esplosione della lunga e grandguignolesca sequenza del prefinale che fa precipitare gli eventi per poi planare nell’amarissimo e anti-catartico finale.

La complessità drammaturgica e la tendenza a giocare per accumulo in termini di temi chiamati a divedersi la scena nelle maglie di sceneggiature sempre fittissime sembrano ormai un marchio di fabbrica di Aster. Eddington ne è una chiara conferma. Per parlare degli Stati (dis)Uniti dei giorni nostri, Aster infila nel frullatore della sua creatività senza guinzaglio una serie di mega temi ciascuno dei quali avrebbe sorretto un intero film sulle proprie spalle: dalla pandemia al movimento Black Lives Matter, dalle le elezioni politiche al complottismo targato QAnon, dal determinismo tecnologico a ossessioni in stile MAGA, dai primi vagiti dell’intelligenza artificiale alla diffusione virale degli eventi mediatici. Ingredienti questi che in teoria potrebbero sembrare troppo ingombranti per essere compressi in un’unica scatola, ma che Aster gestisce con maestria sfornando un film che potrà essere definito imperfetto nella sua ansia di perfezione, ma che nessuno potrà non individuare come la più compiuta e riuscita rappresentazione di un paese sull’orlo di una gigantesca crisi di nervi per il caos che vi regna sovrano.


di Guido Reverdito
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