Il cineromanzo italiano del Novecento: tra pellicola, stampa e cultura popolare

Una riflessione a cura di Antonio La Torre Giordano.

Nel contesto della cultura popolare italiana del Novecento, il cineromanzo assume il ruolo di medium ibrido e fortemente intermediale, capace di fondere narrazione seriale, immaginario cinematografico e cultura visiva di massa. Nato come forma editoriale destinata a tradurre su carta i film più amati, il cineromanzo ha svolto un ruolo cruciale nella diffusione del linguaggio cinematografico presso ampie fasce di pubblico, spesso escluse dalla fruizione in sala. Lungi dall’essere un semplice sottoprodotto commerciale, esso ha rappresentato un vero e proprio cinema da leggere, dotato di una grammatica autonoma e di una specifica funzione culturale.

In Italia, tra gli anni Quaranta e Ottanta, il cineromanzo ha contribuito alla costruzione di un immaginario collettivo condiviso, fungendo da vettore di sogni, modelli comportamentali e alfabetizzazione visiva. In un’epoca in cui la distribuzione cinematografica non era ancora capillare, il cineromanzo offriva la possibilità di “rivedere” il film nello spazio privato della lettura, introducendo una modalità alternativa e democratica di accesso al prodotto audiovisivo. La sua natura cartacea, fondata sulla sequenzialità fotografica e l’uso di didascalie sintetiche, lo rendeva un dispositivo narrativo autonomo, capace di trasformare l’esperienza filmica in oggetto seriale da collezione e consumo domestico.

L’avvento del sonoro, sin dalla fine degli anni Venti, ridefinì il rapporto tra pellicola e carta, imponendo al cineromanzo una funzione complementare rispetto al film proiettato. Pur subordinato al testo audiovisivo, esso operava come paratesto illustrativo, contribuendo alla circolazione culturale dell’opera cinematografica in territori privi di sale o con accesso limitato. Tale funzione documentaria è oggi riconosciuta anche dalla storiografia, che include i cineromanzi tra le fonti utili alla ricostruzione storica del cinema, accanto a costumi, manifesti, sceneggiature e materiali di scena.

Nella sua forma originaria, fino agli anni Quaranta, il cineromanzo prevedeva un testo narrativo accompagnato da fotografie eterogenee; nel secondo dopoguerra, invece, si affermò un modello prevalentemente iconografico, dove la sequenza fotografica guidava la fruizione del lettore attraverso un montaggio di immagini fisse corredate da sintetiche didascalie. Al di là della funzione narrativa, la carta ha ospitato anche l’intera filiera produttiva cinematografica: soggetti, contratti, flani pubblicitari, scenografie, gadget promozionali e materiali editoriali vari, tutti testimoni di un’industria culturale in dialogo costante con l’universo cartaceo.

Il cineromanzo, dunque, si inserisce a pieno titolo tra i paratesti che contribuiscono alla ricezione e reinterpretazione del film, pur mantenendo una propria autonomia formale. La sua natura di prodotto intermediale — a metà strada tra il cinema e la stampa — gli consente di occupare un’area liminale e fertile, dove la sequenza fotografica sostituisce la continuità del movimento filmico, rielaborando contenuti audiovisivi secondo logiche editoriali. Questo statuto “comprimario” rispetto al film lo ha reso uno strumento di grande impatto nella diffusione della cultura cinematografica, pur restando formalmente esterno al sistema produttivo ufficiale.

A partire dagli anni Cinquanta, considerati l’età d’oro del cineromanzo, questa forma editoriale raggiunse la massima diffusione. In molti casi, divenne l’unico archivio visivo disponibile per pellicole censurate o andate perdute. Parallelamente, i contenuti si diversificarono: dai grandi classici del cinema d’autore a opere di genere (melodramma, peplum, horror, western), passando per trasposizioni di romanzi storici come Ulisse (1954) e La Gerusalemme liberata (1958). Tale eterogeneità dimostra la capacità del cineromanzo di adattare a un medium statico una varietà di codici narrativi e iconografici, dissolvendo le tradizionali distinzioni tra cultura alta e bassa.

Un caso emblematico è rappresentato da Il Gattopardo (1963), la celebre trasposizione viscontiana del romanzo di Tomasi di Lampedusa. Osteggiata dalla casa di produzione italiana Titanus, la versione in cineromanzo non fu mai distribuita in Italia, ma vide la luce in Francia grazie alla testata Mon Film, che ne pubblicò una riduzione nel 1964. Questo episodio rivela non solo la portata internazionale del fenomeno, ma anche le tensioni tra industria cinematografica e circuiti editoriali, testimoniando la rilevanza del cineromanzo come canale autonomo di ricezione e rielaborazione.

Il rapporto tra cinema e letteratura — già complesso sin dagli esordi del film a soggetto — trova nel cineromanzo una nuova articolazione. Se il cinema attinge alla letteratura per rafforzare la propria dignità culturale, il cineromanzo interviene come terzo termine, traducendo la narrazione letteraria mediata dal cinema in una forma accessibile e popolare. Questa triangolazione riflette la trasformazione dei consumi culturali novecenteschi, segnati dal declino del letterato tradizionale e dall’emergere di nuove modalità espressive e divulgative. Il linguaggio cinematografico, inizialmente privo di un proprio lessico narrativo, trovò nella letteratura una fonte inesauribile di trame, mentre il cineromanzo contribuì a sedimentare visivamente queste narrazioni, stabilendo una memoria condivisa attraverso la serializzazione cartacea.

Negli anni Settanta, tuttavia, la qualità editoriale dei cineromanzi iniziò a declinare. La crescente presenza di contenuti erotici e thriller ne segnò una deriva tematica, mentre l’interesse del pubblico si spostava progressivamente verso la televisione e l’home video. La frattura definitiva si consumò con l’affermarsi delle emittenti private e del mercato VHS, che sottrassero al cineromanzo la sua funzione di ponte tra pellicola e pubblico. Gli ultimi esemplari, talvolta dedicati a film classificati VM18, rappresentano l’epilogo di un’epoca e di un genere che aveva saputo incarnare, in forme diverse, il volto mutevole della cultura popolare italiana.

L’eredità del cineromanzo sopravvive oggi nei fondi conservati da istituzioni come il Museo Nazionale del Cinema di Torino e l’Archivio Siciliano del Cinema di Palermo, che hanno promosso negli anni una politica rigorosa di tutela e valorizzazione. Queste collezioni, spesso arricchite da donazioni e archivi dismessi, costituiscono un patrimonio di inestimabile valore per la ricerca storica, offrendo strumenti indispensabili per lo studio della ricezione filmica, della serialità popolare e dei processi di trasmissione culturale.

In definitiva, il cineromanzo rappresenta una delle prime e più significative forme di adattamento mediale della produzione cinematografica. Più che una semplice trasposizione, esso ha operato come spazio autonomo di narrazione e memoria, contribuendo alla formazione di un immaginario collettivo e all’articolazione di una cultura visiva nazionale. Se oggi appare relegato al rango di oggetto di studio, resta tuttavia una testimonianza eloquente di come il cinema, oltre a vivere sullo schermo, possa trasformarsi in racconto da sfogliare, depositando tracce indelebili nel tessuto della cultura popolare.


di Antonio La Torre Giordano
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