Zvanì

La recensione di Zvanì, di Giuseppe Piccioni, a cura di Gianlorenzo Franzì.

A vedere Zvanì, romanzo famigliare di Giovanni Pascoli (come recita il sottotitolo del film portato alle Giornate degli Autori della Mostra del cinema di Venezia 2025) sembra quasi naturale che l’occhio e la sensibilità di un autore sopraffino come Giuseppe Piccioni raccontino la vita di un poeta, mentre è solo la prima volta che il regista ascolano mette al centro di una sua opera la biografia di un gigante dei versi. Quello che esce fuori, allora, è proprio un miracolo inevitabile: tutto quello che in altre mani risulterebbe retorico, enfatico, fuori dal tempo, Piccioni lo trasforma -con le sue atmosfere rarefatte, malinconiche e sensibili- in un gioiello di emozioni e di umanesimo, dove la forma ha una sintonia perfetta con il contenuto. Lo sguardo poetico e intimo sui personaggi, la cifra stilistica che insegue ed evidenzia sempre le fragilità di chi è perennemente alla ricerca di un senso: sono probabilmente le caratteristiche che permettono a Zvanì di evitare con intelligenza le trappole didattiche che sono insite nella vita di un poeta realmente esistito e così radicato nell’immaginario letterario della penisola.

Qua siamo piuttosto nelle zone dell’Eterno visionario di Placido, che per raccontare Pirandello ne disegnava i fantasmi, tracciando i contorni di un’indagine prima esistenziale e poi reale.

Non per niente, il film inizia con la morte di Pascoli e torna indietro con dei flashback che illuminano i giorni in cui lo stesso Giovanni (bravo ed efficace Federico Cesari) cerca di far luce sulla morte del padre, evento catalizzatore della sua vita.

Ed ecco che allora il lato pubblico, che in Zvanì può essere rappresentato da La Cavallina Storna, è la chiave per entrare in un mondo privato fatto di dolore, sofferenze taciute, lacerazioni silenziose – che sono poi le ferite che meglio sa raccontare Piccioni, con quella sua sintassi dolente ma mai rassegnata.

È il mondo intimo, quello famigliare appunto, che poi come in un cerchio è quello da cui scaturisce la poesia di Pascoli, la sua ispirazione

Rimane però un mistero dell’arte come Piccioni sappia cogliere sempre le sfumature più segrete e contraddittorie della complessità dei sentimenti: forse l’unico indizio sono quegli insistiti sguardi in macchina, che riecheggiano i momenti più alti di quel suo capolavoro Fuori dal Mondo, quei primi piani larghi e sorridenti anche mentre si racconta un passato che è di morte, di assenza, di privazione emotiva. Che poi sono forse le sequenze nelle quali meglio si comprende come le parole, l’impalcatura letteraria, siano profondamente, ma anche fluidamente inserite e incastonate nelle immagini, rendendo Zvanì un film dove le due componenti (parola e immagine, forma e contenuto) sono indissolubilmente confluite l’una nell’altra, trasformandosi dolcemente in una dolce lacrima di dolore. A margine: è da sottolineare l’anomalia del mercato italiano, che distribuisce Zvanì in sole 47 sale, dimenticando che Piccioni è ospite fisso della Mostra di Venezia, che nel 1999 Fuori Dal Mondo vince i cinque premi più importanti ai David di Donatello, e che il film successivo (Luce dei Miei Occhi) due premi principali ai due protagonisti, Sandra Ceccarelli e Luigi Lo Cascio.  


di Gianlorenzo Franzì
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