Sciatunostro

La recensione di Sciatunostro, di Leandro Picarella, a cura di Sergio Sozzo.

“Mezza isola vi sta cercando”, dicono gli adulti ai due giovani protagonisti Ettore e Giovannino, ritrovando la mattina i ragazzi addormentati in una insenatura tra gli scogli, un anfratto angusto e spigoloso come le feritoie in cui i due amano infilarsi, alla ricerca delle berte che si nascondono per covare le proprie nidiate, oppure all’esplorazione di strutture abbandonate e dissestate (torna alla mente I resti di Bisanzio di Carlo Michele Schirinzi), di macerie archeologiche che sotto il sole si fondono in un unico paesaggio insieme alle barche sfondate e abbandonate, alle Apecar arrugginite con le ruote oramai sbrindellate.

L’isola vi sta cercando, appunto: lo sciatu del titolo del film di Leandro Picarella vaga tra le piazze di Linosa che nelle ore calde sono deserte e poi la sera si riempiono per le feste di paese, scende sottacqua nel mondo capovolto e poi riemerge, sembra essere alla costante ricerca di un angolo dove posarsi, di un corpo in cui incarnarsi. Tutto il film di Picarella, forse tutta la sua opera compresi i precedenti Divinazioni e Segnali di vita, sembra guardare a quello che scorgiamo con la coda dell’occhio, quello che resta ai margini della visione, non registrato dal centro dell’immagine: quegli stessi angoli dove si annidano le scoperte di Sciatunostro e che finiscono irrimediabilmente rovinati, erosi come le rocce, nelle riprese in VHS o MiniDv che costituiscono l’altra dimensione spaziotemporale di questa storia. L’archivio del videoamatore Pino Sorrentino è un ulteriore livello dello scavo, un ulteriore strato sopra (o meglio, sotto) le cose: ma con una videocamera è facile annullare le distanze, appiattire la lontananza con uno zoom digitale – quando invece sei al cospetto di una partenza, di un mare da attraversare (è Ettore, che sta per abbandonare l’isola per trasferirsi a “studiare sulla terraferma” per volere dei genitori, ombre mai inquadrate per intero), puoi solo testare la gittata dell’eco, provare a sentire fino a dove arriva il rimbombo della tua voce.

Ecco, Picarella costruisce precisamente un groviglio di riecheggiamenti che si mescolano sfacciatamente tra le epoche attraversate dalle immagini e esondano anche nella colonna sonora, dove Fiorella Mannoia risponde a Francesco Bianconi e Baby K, Perdere l’amore a L’amour toujours. Nelle immagini dell’archivio dell’anziano videomaker transitano facce, eventi di questa “estate che non finisce mai”, ma il tempo scorre anche per le famiglie di Ettore e Giovannino, le sorelline di quest’ultimo sembrano crescere a vista d’occhio, come le ruote delle bici che si fanno sempre più alte da inforcare.

Pare quasi di essere finiti in una buca nel tempo, l’unica via di fuga è forse iniziare a riprendere, come fa Giovannino nel finale raccogliendo il testimone dal vecchio Pino (il quale più volte, nelle immagini di repertorio, sembrava averlo offerto al figlio Michele, oggi lontano anche lui come Ettore), l’unica maniera per illudersi di fissare un punto sulla linea temporale, di poterlo fermare – e se questa storia iniziasse nel momento in cui i due ragazzi scoprono la postazione di montaggio a casa di Pino? “Così puoi andare avanti e indietro nel tempo”, spiega l’uomo a Giovannino: ecco, nella differenza tra la delicatezza con cui Pino riattraversa con il mouse la barra del montaggio, accarezzando quasi quelle registrazioni del suo passato, e la maniera erratica, violenta, rapsodica, con cui il ragazzino salta da un punto all’altro della timeline, immobilizzando istanti, estraendo attimi dal movimento continuo, costruendo una sua narrazione interna di frame in frame, c’è di mezzo il mare di una memoria riconciliata e di una che invece ancora non si rassegna alla sedimentazione inevitabile.


di Sergio Sozzo
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