Pomeriggi di solitudine
La recensione di Pomeriggi di solitudine, di Albert Serra, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

Pomeriggi di solitudine, di Albert Serra, distribuito da Movies Inspired e in uscita l’8 settembre 2025 è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
Andrés Roca Rey, celebre torero peruviano, è il protagonista di questo documentario del regista catalano Albert Serra, in cui immagini potentissime mostrano senza commento la violenza antropologica della corrida, la sfida impari fra uomo e animale. Considerato un semidio, il torero viene messo a nudo dal film: che è veramente solo nei pomeriggi di sole, l’uomo che uccide o l’animale ucciso? E chi tra i due muore veramente?

La recensione
di Guido Reverdito
Se non siete appassionati di tori e corride, è quanto mai probabile che il nome di Andrés Roca Rey non vi dica assolutamente nulla. Ma per quanti (sia in Spagna che in giro per il mondo) invece lo sono, questo ventinovenne peruviano è talmente famoso nell’àmbito della tauromachia da non far sembrare un azzardo il paragonarlo a giovani fenomeni sportivi quali Jannik Sinner, Carlos Alcaraz nel tennis e Yamine Lamal nel calcio. Coi quali condivide non solo la fama planetaria (pur se nel suo caso circoscritta all’universo delle corride), ma soprattutto la precocità del talento, avendo Andrés esordito a soli quindici anni per poi affrontare a diciannove il battesimo del fuoco nel tempio di Las Ventas a Madrid.
A interessarsi a questo fenomeno della tauromachia mondiale è Albert Serra, regista, sceneggiatore e produttore catalano che, dopo 11 lungometraggi disseminati lungo il percorso di una carriera tutta all’insegna dell’originalità e di scelte stilistiche spesso controcorrente (che però non gli hanno impedito di portarsi a casa un Pardo d’oro a Locarno nel 2013 con Historia de mi muerte né che il suo Pacifiction venisse scelto dai Cahiers du Cinéma come miglior film di tutto il 2022), affronta per la prima volta il genere documentaristico. E, come accaduto nella maggior parte dei lungometraggi realizzati fino a oggi, anche in questo caso l’approccio scelto da Serra è a dir poco inconsueto.
Pur trattandosi in linea teorica di un documentario, Pomeriggi di solitudine ha infatti ben poco a che vedere con le caratteristiche tipiche del genere di appartenenza. Serra sceglie di affrontare la materia che intende documentare evitando quello che ogni spettatore si aspetterebbe: ovvero non lo mette di fronte né a una discutibile e faziosa celebrazione del rito delle corride, né tanto meno a un ben più prevedibile atto di denuncia nei confronti dell’anacronistica violenza contro esseri viventi che ne è la grammatica di base. Ciò che sta al centro di questo straordinario saggio di cinema (che è il prodotto di 600 ore di girato poi condensate in meno di due dopo una maratona in cabina di montaggio) è infatti altro. E cioè la ritualità dei gesti che si ripetono identici in occasione di ogni corrida, la celebrazione sacrale di un corpo quasi super umano nel suo eroismo ai limiti della follia, e la solitudine del torero (di qui il titolo del documentario) scandagliata in ogni attimo che precede, segue e documenta la sfida di ogni confronto con la brutalità di un rito da sangue e arena.
Roca Rey viene seguito dalla macchina da presa unicamente in tre spazi: le stanze d’albergo in cui il suo assistente personale lo veste in un rituale che se non fosse per la celebrazione machistica della tauromachia sembrerebbe il preliminare di un rito di seduzione amorosa; le arene in cui il giovane talento infiamma le masse scatenando reazioni da pop star (col seguito di groupie invaghite della sua bellezza statuaria che lo braccano a fine corrida per poterne anche solo sfiorare l’epidermide come se fosse quella di un santo); ma soprattutto – intuizione geniale questa – all’interno dello spazio angusto del furgone che lo trasporta da una città all’altra o dagli alberghi all’arena.
Ed è lì che la camera fissa piazzata sul cruscotto indaga lo sguardo di Andrés cercando di penetrare nell’espressione del suo volto volutamente bloccato in un magnetismo ipnotico per far comprendere allo spettatore il subbuglio che gli agita l’anima alla fine di una corrida (con spesso ancora il sangue che cola dalle ferite rimediate nello scontro virulento coi tori) o la tensione spasmodica che lo inonda di adrenalina prima di affrontare la vestizione e poi la discesa nell’arena. La fissità di quelle immagini rivelatrici sono l’antidoto reale alla falsità della corrida vista come sistema sleale in cui una massa di umani armati di tutto punto si accanisce contro una bestia inerme che ha solo il proprio furore ferino da opporre all’ingiustizia di un destino segnato dal momento della nascita.
Nel suo approccio quasi verista alla materia (senza che ci siano mai interviste al torero e con le poche frasi di circostanza che il suo entourage si scambia prima e dopo la mattanza), Serra sceglie di raccontare Andrés e l’universo brutale delle corride optando per un’iterazione meccanica che ripropone in un loop senza fine la ritualità degli eventi. Se sulle prime lo spettatore non può non reagire d’istinto alla sequenza di torture che vengono inflitte al toro fino alla sua esecuzione finale da parte del matador (il tutto sempre inquadrato in primissimi piani che accentuano l’orrore dei gesti senza mai volerli deprecare), la ripetizione del rituale porta a un’inevitabile assuefazione proprio perché l’intento del regista non è quello di condannare una barbarie che va avanti da secoli né tantomeno quello di spezzare una lancia a suo favore.
Ma solo e semplicemente quello di documentare tempi e ritmi di un rituale fatto di gesti e atteggiamenti teatrali che trovano nella figura ieratica di Andrés il loro magnifico interprete, inarrivabile come una statua dinamica che con la regalità sacrale di gesti reiterati fino all’esasperazione regala uno spiraglio di verità a una messa in scena che per costruzione è la celebrazione conclamata di un rito sleale e fasullo come la corrida.
di Guido Reverdito