Honey Don’t
La recensione di Honey Don't, di Ethan Coen, a cura di Guida Reverdito.

C’era una volta una formidabile coppia di fratelli di Minneapolis che in tre decenni di attività in qualità di registi, sceneggiatori, montatori e produttori (da Blood Simple per lo meno fino al cult di Non è un paese per vecchi) ha ridisegnato i contorni del cinema americano, impreziosendo con tocchi d’autore continue scorribande nei più popolari generi cinematografici a stelle e strisce.
Ma da quando le strade creative di Joel ed Ethan Coen si sono bruscamente separate, quelle scintille di genio distribuite senza mai guardare al risparmio si sono trasformate in cenere inerte. Come se la scissione della coppia ne avesse rattrappito la forza propulsiva, inaridendo le fonti di ispirazione e portando uno (Joel) a rimuginare su temi scespiriani rivisitati in chiave arty (vedasi il suo cupo The Tragedy of Macbeth di quattro anni fa), e l’altro a imbarcarsi in una bizzarra trilogia di B-movie in versione LGBTQ+ dominata da lesbiche disegnate come tante Jessica Rabbit ipersessuate e ingorde di vita vissuta controcorrente ma in linea con le urgenze culturali dell’era in cui viviamo.
Dopo Drive-Away Dolls dello scorso anno e prima dell’annunciato Go Beavers a chiusura della trilogia (cui Ethan Coen dice di aver lavorato per ben vent’anni insieme alla compagna e storica co-sceneggiatrice Tricia Cook), questo Honey Don’t ne è il capitolo centrale, intenzionalmente sospeso tra la rivisitazione pop del thriller e la pochade vagamente colorata a tinte femministe con personaggi che in verità sarebbero maggiormente a proprio agio in un cartone animato per adulti cresciuti poco e male a livello intellettuale.
Al centro della vicenda narrata c’è Honey O’Donahue, investigatrice privata che si aggira per le strade polverose della californiana Bakersfield e che alterna le indagini per i propri clienti ad abbuffate a base di sesso smodato con varie compagne occasionali. Quando un incidente mortale (ma per nulla accidentale) di una coppia di perfetti nessuno la coinvolge in maniera del tutto casuale, questo private eye in tacchi a spillo con auto sportiva vintage di corredo si trova a indagare su una setta di fanatici che pendono dalle labbra di un sedicente sacerdote, il carismatico ma delinquenziale padre Dean, anch’egli affetto da bulimia sessuale e col vizietto del traffico di sostanze non proprio legali. Se questo poi non bastasse, nella vita già abbastanza burrascosa della detective irrompono a gamba tesa prima un anziano genitore cui la virago non ha mai perdonato un’infanzia di abusi, ma soprattutto una poliziotta con la quale dà vita a una bollente relazione destinata a sfociare in un bagno di sangue. Ciò non ostante, divisa tra ufficio, casa e chiesa, Honey finisce però col mettere a cuccia i cattivoni da fumetto hard boiled, senza rimetterci nulla o quasi.
Se è vero che nel cinema dei fratelli Coen le donne hanno spesso il ruolo di mine vaganti capaci di influenzare in vari modi e misure le vite tribolate degli sventurati che ne incrociano i tragitti esistenziali, in questo pasticcio ambizioso in cui c’è un mix fumoso di tutto e di più senza vera sostanza il meno intellettuale e sofisticato dei due fratelli sembra voglia ribaltare la formula vincente di tanti film del passato: invece di partire da uomini spiazzati dall’irrompere di femmine fatali nelle proprie vite, questa volta la prospettiva da cui Ethan Coen guarda la sua storia è quella della protagonista, convertendola in motore mobile il cui agire innesca tutti gli snodi di una sceneggiatura pensata e scritta per strizzare l’occhio u una certa fetta di pubblico femminile per esserne in qualche modo assolto.
Fatte salve le buone intenzioni e al netto comunque di una programmatica intenzione di assecondare talune mode culturali del momento, il risultato finale di questa sgangherata commedia queer non è però quello che forse il suo autore si augurava: e cioè rivisitare un genere assai congeniale tanto a lui quanto al fratello quale il thriller ridisegnandone i canoni coi toni della commedia gore in technicolor emotivo. Ma tra esagerazioni di ogni tipo, sequenze macabre alternate a tripudi orgiastici ai limiti della pornografia, Honey Don’t finisce col fallire nel proprio intento di disegnare un ritratto di donna emancipata in toto e capace di imporre la propria traboccante (omo)sessualità sull’universo testosteronico dei villain del sesso ormai forte solo a parole. E se lo storcere il naso può forse parere reazione eccessiva, la severità del giudizio sta proprio nel nome di Ethan Coen e di quello che il suo cinema ha rappresentato per tutti gli anni in cui il sodalizio col fratello maggiore ha prodotto capolavori a raffica. Non è facile accettare che la creatività geniale di quella coppia formidabile venga ridotta a un bignami di tic posticci e autoreferenziali, in cui tutto è forzato e fasullo e nemmeno l’avere a disposizione due fuoriclasse come Margaret Qualley e Chris Evans per i ruoli dei protagonisti ha regalato un salvagente a un’operazione che ci si augura possa solo essere ricordata come uno sfortunato incidente di percorso.

di Guido Reverdito