Giovani madri

La recensione di Giovani madri, di Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne, a cura di Guido Reverdito.

Paladini di un cinema da sempre votato alla rappresentazione nuda e cruda della realtà senza mai fare sconti né concessioni al pubblico, dopo quasi quarant’anni di carriera e con tredici lungometraggi alle spalle, con questo Giovani madri i fratelli Dardenne si discostano leggermente dai due ultimi film scritti e diretti (e cioè L’età giovane e Tori e Lokita), tornando a disegnare uno spaccato da immersione neorealista in un universo anagraficamente e antropologicamente molto lontano dagli àmbiti narrativi in cui hanno sempre amato muoversi.

Questi due grandi veterani del cinema d’autore ritrovano qui una delle corde più autentiche del loro cinema, riaffermando una poetica capace di coniugare rigore morale, umanesimo e una vicinanza estrema alle vite che mettono in scena. Dopo i già citati L’età giovane e Tori e Lokita (da più parti però considerati inferiori alla produzione precedente), il duo belga torna a un realismo più aperto, luminoso, che non rinuncia all’asprezza dell’approccio ma lascia filtrare una speranza concreta e mai tesa alla facile funzione consolatoria.

La genesi del progetto affonda nelle testimonianze raccolte in una maison maternelle nei pressi di Liegi. L’intenzione iniziale – raccontare la storia di una sola giovane madre – si è presto convertita in un percorso narrativo che segue cinque ragazze e i loro neonati, senza però trasformarsi in un tradizionale racconto a impianto corale. Perla, Jessica, Julie, Ariane e Naïma – questi i nomi delle cinque ragazze madri – non sono pedine di un discorso collettivo: i Dardenne accompagnano ognuna di esse lungo un percorso individuale, fatto di paure intime e scelte decisive, restituendone le specificità senza gerarchie né preferenze. Che si tratti di affrontare l’abbandono, la solitudine, la precarietà economica, la dipendenza o semplicemente la fatica di definirsi nel rapporto con il mondo, ogni frammento di vita ha un valore autonomo e, allo stesso tempo, universale.

Il vero centro drammaturgico del film è infatti la dialettica costante tra individuo e ambiente: le ragazze crescono come madri mentre imparano cosa significhi essere figlie, partner, lavoratrici, adulte. La maternità diventa un passaggio fondamentale ma non totalizzante, un momento chiave che apre nuove domande più che produrre risposte. In questo senso Giovani madri (vincitore abbastanza a sorpresa del Prix du scénario al Festival di Cannes 2025) prende la maternità molto sul serio, ma la ridimensiona al tempo stesso: non la santifica, non la semplifica, né tantomeno la carica di retorica. Le protagoniste non sono simboli, ma corpi e lineamenti vivi che cambiano, ed è proprio la verità delle loro trasformazioni a costituire la materia più autentica del film.

La macchina da presa, come sempre nel cinema dei Dardenne, mantiene una distanza perfetta (cioè quella giusta) dalla materia affrontata: senza esagerare però né nell’invadenza né nel distacco, mantenendosi sempre complice ed evitando ogni forma di paternalismo, attenta a non ergersi mai a giuria pronta a emettere verdetti scontati. Questa misura formale, costruita con un’artigianalità che sembra invisibile, permette al film di tenere in equilibrio spontaneità e messa in scena, vita e racconto, naturalezza e costruzione. Quello dei Dardenne è un cinema che non punta alla denuncia facile, non ricorre a colpi di scena artificiosi né a un sentimentalismo di comodo: preferisce porre lo spettatore di fronte a domande dirette, essenziali e mai banali. E non a caso il risultato è un’opera che, pur affondando nel dolore, trova una speranza credibile proprio nella capacità delle sue protagoniste di resistere, scegliere, cambiare. La speranza non cancella le ferite; nasce dalle ferite. Non alleggerisce i conflitti, offrendo una possibilità di attraversarli. In questo Giovani madri rappresenta un ritorno al cuore pulsante della poetica dei fratelli Dardenne: un film politico nel senso più profondo, poetico senza artificio, realistico senza cinismo, capace di ascoltare la vita mentre la osserva, ma anche di concentrarsi di nuovo su quel dialogo tra individuo e società che nelle ultime opere era in parte passato in secondo piano per lasciare maggiore spazio e attenzioni alle urgenze del singolo.


di Guido Reverdito
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