The Ugly Stepsister

La recensione di The Ugly Stepsister, di Emilie Blichfeldt, a cura di Gianlorenzo Franzì.

L’ossessione della bellezza, l’oscurità del sentiero percorso per arrivarci e possederla: c’è qualcosa di più attuale, qualcos’altro di così sempre attuale? Le fiabe sono immortali perché contengono un archetipo, per cui attraverso la struttura narrativa aristotelica è possibile anzi obbligatorio decostruire le più potenti, e rimodellarle a seconda del periodo storico e culturale.

Tra tutte, Cenerentola è una storia che ha nella sua essenza più profonda l’urgenza del body horror con radici molto lontane nel tempo: ha attraversato la declinazione partenopea con Basile (Lu Cuntu di li Cunti), la tradizione mitteleuropea con i fratelli Grimm e Perrault e le gioiose, artistiche chincaglierie Disney, per arrivare fino al cinema neorealista con Bellissima di Rossellini, fino ad oggi nella rilettura postmoderna con The Substance.

E ovviamente questo The Ugly Stepsister, che ancora più di Coralie Fargeat spinge e anzi abbatte ogni decenza: tenie cresciutissime, particolari pornografici, dita mozzate di netto, aghi nelle palpebre, sono il cote scenico di un film spietato e crudele che viaggia verso il corpo e la perfezione in un piano inclinato che diventa condanna. Certo, l’assonanza con il film della Fargeat si ferma solo al codice del genere (la pluralità di rivisitazioni dimostra solo quanto sia sempre più essenziale, purtroppo, oggi), perché The Ugly Stepsister prende strade sue, e rimescola un immaginario vastissimo -che tocca anche il gotico Hammer- per spigionare le flatulenze esistenziali di un oggi dominato da un delirio irrefrenabile, dalle nostre stesse convulsioni mentre rimaniamo chiusi in una gabbia invisibile dove le sbarre sono i canoni estetici che ci impongono e ci imponiamo illudendoci (?) che la bellezza possa essere un ascensore sociale.

È un gioco di specchi interessante quello che fa del rapporto contenuto/contenitore un punto di vista teoretico The Ugly Stepsister. Perché ha come cuore pulsante la forma con tutto ciò che deriva in un’opera audiovisiva: la fotografia, i costumi, la luce, la superficie. I corpi, il corpo, è ciò che vediamo, ciò che desideriamo, ciò che possediamo, e allora Emilie Kristine Blichfeldt ribalta la traiettoria narrativa e mette al centro del suo racconto la sorellastra, “quella brutta”, e in lei riflette le inquiete e inquietanti inquietudini del contesto socio-culturale, mostrandone le sfaccettature eterne. E a nulla servono gli insert con le derive onirico-grottesche della protagonista Elvira: niente compromette la tragica discesa infernale alla quale siamo tutti destinati, volenti o nolenti.


di Gianlorenzo Franzì
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