The Life of Chuck

La recensione di The Life of Chuck, di Mike Flanagan, a cura di Christian D'Avanzo.

The Life of Chuck è un film scritto e diretto da Mike Flanagan, premiato con il prestigioso People’s Choice Award al Toronto International Film Festival nel settembre 2024. Tratto dall’omonimo racconto di Stephen King, segna per il regista un nuovo incontro con l’immaginario dello scrittore dopo Doctor Sleep (2019), sequel di Shining. Figura di spicco del cinema thriller-horror contemporaneo, Flanagan ha conquistato una solida reputazione anche nel mondo seriale con le produzioni Netflix The Haunting of Hill House e The Haunting of Bly Manor. Sul grande schermo, invece, ha diretto titoli come Oculus – Il riflesso del male (2013) e Hush – Il terrore del silenzio (2016), confermandosi come uno degli autori più versatili nel coniugare tensione psicologica, dramma e suggestioni soprannaturali.

Distribuito in Italia da Eagle Pictures a partire da giovedì 18 settembre 2025, The Life of Chuck ha una durata di circa 110 minuti e racconta la vita intensa e sorprendente di Charles “Chuck” Krantz (Tom Hiddleston), un uomo all’apparenza ordinario la cui esistenza diventa specchio dell’intero universo. Sullo sfondo di un mondo che sembra spegnersi tra catastrofi naturali e fenomeni inspiegabili, il film inizia dalla fine (terzo atto), quando Chuck sta affrontando la malattia che lo consuma, circondato dall’affetto della sua famiglia. Dunque, attraverso una narrazione che procede a ritroso, è possibile scorgere piccoli episodi quotidiani – un ballo improvvisato in strada, il legame con la nonna che gli trasmette l’amore per la danza – che si rivelano essere frammenti dotati di una bellezza purissima, attimi capaci di lasciare un segno indelebile.

Non è affatto facile rappresentare le contraddizioni dell’esistenza, accostando la tenera semplicità all’inspiegabile complessità dell’essere, eppure The Life of Chuck rivela la sua autenticità nel riconoscersi come artificio, trattandosi non solo di un film, ma anche di una trasposizione di un racconto di Stephen King. Il cinema offre l’opportunità di sbirciare negli angoli più remoti della psiche e della natura umana, indagando sul piano etico, morale e soprattutto emotivo, ragion per cui osservando gli eventi che hanno segnato la vita di un uomo qualunque – e proprio per questo meraviglioso –, risulta inevitabile pensare sia all’individualità (spazio personale) che alla collettività (spazio dove emergono paure condivise). L’operazione di Flanagan è fortemente concettuale perché propone un approccio teorico sulle infinite possibilità che il cinema detiene in sé in quanto atto fecondo, capace di generare universi tanto interiori quanto esteriori all’essere umano. D’altronde, l’aspect ratiocontinua a ridursi con lo scorrere dei minuti, come se la palpebra del protagonista coincidesse con l’occhio della macchina da presa, chiudendosi gradualmente. Il cuore di un film come The Life of Chuck risiede però altrove, poiché la sua visione è ancorata alla memoria e, in particolare, alla sua processualità. Infatti, la struttura in tre atti narrati in ordine inverso lascia intuire che la memoria non viene riportata in vita in maniera lineare, ma attraverso una costruzione in retrospettiva. Ciò significa che dal presente, che combacia con la fine, con la morte, viene filtrato tutto ciò che lo ha preceduto, con inserti di carattere fantastico, concepiti come estensioni del reale.

Di conseguenza, le scene del film non sono eventi oggettivi, ma sono frutto della predisposizione del corpo e della mente di Chuck a far emergere ricordi senza sforzo attivo: le visioni nella cupola, il ritorno di determinati personaggi o la ricorrenza di segni specifici sono l’eco di esperienze passate. Ci sono però alcuni momenti in cui Chuck rievoca consapevolmente passaggi fondamentali della sua vita, quelli che ne hanno orientato le scelte: l’amore per la danza trasmessogli dalla nonna, il senso del dovere instillato dal nonno attraverso la matematica e la spiegazione della maestra sul significato del verso “Io contengo moltitudini”. La danza, in particolare, diventa quasi un’icona della memoria, una traccia, una cicatrice, un contatto sia fisico che emotivo con il passato, costituendo un filo conduttore chiaro. In fin dei conti, con The Life of Chuck, Flanagancostruisce visivamente la traccia esistenziale di un uomo, sottolineando tramite la voce del narratore esterno che si tratta di un racconto fantastico e finzionale, ma soprattutto generando un’esperienza fantasmatica. Chuck ripercorre la sua esistenza incontrando gli spiriti della coscienza, presenze interiori che ritornano come spettri del vissuto, e del resto Flanagan ha più volte manifestato il suo interesse nel trasformare i fantasmi in traumi, paure e/o frammenti di personalità. Anche qui il regista conferma questa poetica, realizzando un’opera stratificata in cui il cinema stesso diventa archivio dei ricordi, capace di dare forma a ciò che resta invisibile e persiste nel tempo.


di Christian D'Avanzo
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