Elisa
La recensione di Elisa, di Leonardo Di Costanzo, a cura di Guido Reverdito.
Elisa, una donna attorno ai quarant’anni, è reclusa da dieci anni in un carcere modello nel Canton Ticino dove sta scontando una pesante condanna per aver assassinato la sorella dando poi fuoco al cadavere. Gli psicologi che hanno analizzato il suo caso sono arrivati alla diagnosi di un’amnesia totale (forse auto-imposta) che ha abraso nella sua mente ogni memoria dell’efferato delitto commesso.
Dopo lunghi anni di torvi silenzi, all’improvviso la donna accetta di incontrare un criminologo francese – il professor Alaoui –, convinto che per comprendere crimini apparentemente inspiegabili come quello commesso da Elisa sia necessario scavare nelle motivazioni di chi li commette (senza però mai rinunciare alla pietas che si deve alle vittime e ai loro familiari). Non tanto per trovarvi una possibile giustificazione, quanto piuttosto per comprendere appieno la personalità del colpevole al fine di aiutarlo a compiere un processo di recupero. Ed è proprio grazie a questi incontri che lo spettatore arriverà a scoprire cosa sia veramente successo tra Elisa e la sorella e quali siano state le ragioni apparentemente incomprensibili che l’hanno portata a commettere un gesto che nessuno può razionalmente né capire né accettare senza l’ausilio di uno scavo di quel tipo.
Dopo Ariaferma (presentato a Venezia nel 2021 fuori concorso), con Elisa Leonardo Di Costanzo quest’anno è tornato in laguna per partecipare al festival in concorso. E non è un caso che tra queste sue due ultime opere (in una filmografia esilissima impreziosita però da piccole perle quali l’esordio de L’innocente e il successivo L’intrusa) ci sia una sorta di filo rosso che va oltre la mera coincidenza dell’essere state presentate a Venezia. Se infatti in Ariaferma il sessantasettenne regista e sceneggiatore di Ischia si era concentrato sulle relazioni tra detenuti e secondini in un carcere in dismissione, in Elisa prosegue una sorta di percorso di indagine nell’anima tormentata di un essere umano ugualmente relegato in una casa circondariale, pedinandolo nelle varie tappe del viaggio interiore destinato a portare alla luce ciò che la protezione del subconscio ha confinato nell’oblio per anni.
Come Di Costanzo stesso ha dichiarato in più di un’occasione, alla base della sceneggiatura (scritta a sei mani con Bruno Oliviero e Valia Santella) c’è stata per lui la lettura illuminante di “Io volevo ucciderla – Per una criminologia dell’incontro”, saggio pubblicato nel 2022 nel quale i criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali affrontano dialogicamente in una sorta di percorso maieutico la storia di vita violenta di una donna omicida che, proprio grazie alle conversazioni e alle interazioni coi due professionisti, si immerge nel cuore nero del proprio passato arrivando a dare un senso al gesto estremo commesso.
Lo stesso avviene infatti alla protagonista di Elisa: abbandonata dalla madre dopo l’inspiegabile gesto da lei commesso, ma moderatamente sostenuta dal padre che le fa visita in carcere cercando di non privarla di quel poco di affetto che gli resta da dare sperando in un suo possibile reintegro futuro nella società, è proprio tramite l’interazione attiva col professor Alaoui che la coltre protettiva dell’amnesia si sfalda progressivamente col procedere dei minuti, scoperchiando botole sui recessi più remoti del suo cuore di tenebra.
Nel gioco a rimbalzo tra le conversazioni e i flashback che esse lasciano sprigionare, il film si snoda con un passo sincopato tra l’emersione in superficie di dettagli che progressivamente vanno a comporre il puzzle della memoria abrasa e la conferma che solo il rovistare nelle pieghe più recondite di un’anima ingabbiata in se stessa (tanto quanto Elisa lo è nel carcere in cui sconta la propria pena) possa certificare la fallacia della teoria della mostruosità del crimine.
Specie se, come nel caso della protagonista, il più efferato dei gesti non può essere spiegato con la facile scorciatoia della marginalità sociale: quando l’orrore è figlio della normalità più ordinaria (Elisa, ragazza di buona famiglia che si macchia di un delitto innominabile) non lo riusciamo a comprendere con gli strumenti della razionalità e della logica. Come accade puntualmente al secondino che non riesce a capacitarsi di come quella donna silenziosa e mite, laboriosa e dolce, possa veramente aver commesso l’orribile delitto per cui sta scontando la pena.
Se questo intenso dramma psicologico coglie nel segno pur pagando un minimo pegno per l’intenzionale claustrofobia da kammerspiel carcerario e il ralenti narrativo con cui gli eventi si srotolano a poco a poco, lo si deve anche in gran parte alla coppia di attori chiamati a dare volti e corpi ai due protagonisti: se una sempre più incisiva Barbara Ronchi (che in meno di un anno e mezzo il pubblico ha potuto apprezzare in una raffica frenetica di film d’autore quali Dieci minuti, Non riattaccare, Familia, Il treno dei bambini, Diva Futura, e Nonostante) non fa fatica a reggere sulle proprie spalle l’intera impalcatura del film, a darle una mano più che generosa è l’attore e regista franco-marocchino Roshdy Zem che giganteggia nel ruolo del criminologo-psicanalista e che nel 2020 aveva vinto un César come miglior attore nel magnifico polar Roubaix, una luce nell’ombra. Dove, guarda caso, vestiva i panni di un detective impegnato a dipanare le trame contorte di un delitto agghiacciante.

di Guido Reverdito