Confiteor
La recensione di Confiteor, di Bonifacio Angius, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Confiteor – come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione è il quinto film di Bonifacio Angius, presentato in anteprima alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori a Venezia.82. Certo, chi conosce Angius ha (almeno) un privilegio: quello di capire fino in fondo, anzi vedere, sentire, fino a che punto un uomo, un artista, può essere uguale al suo cinema, e fino a che punto un’opera può identificarsi con il suo creatore.
Confiteor può essere visto come la terza parte di una trilogia ideale -o forse idealizzata- che parte con Ovunque Proteggimi e continua con I Giganti: una progressiva, inesorabile disgregazione della narrazione lineare a favore di un flusso di coscienza sempre più sfilacciato ma sempre più dolorosamente vero. Anzi, non vero: ma sincero.
Perché se è vero che da quando il cinema insegue la realtà, non è più capace di dire la verità, oggi è difficile o impossibile trovare sincerità nel vociare indistinto della sala e dei set.
Ci vuole sempre amore per raccontare una storia e per raccontarla ancora meglio lo devi aver perduto. L’amore, intendo.
Angius, allora, è un caso a parte, nel panorama italiano di oggi: anzi forse un caso raro, anzi un autore rarissimo, uno dei veri ultimi artisti, poco incline all’accomodamento, per nulla disposto al compromesso in maniera così ostinata da sembrare quasi programmatica.
Confiteor è l’apoteosi del suo modo di intendere, anzi di vivere il cinema, ed è proprio in questa intersezione che vita e finzione diventano una cosa sola, vita e cinema si fondono in un racconto incomprensibile a tratti ma sempre pulsante, sempre lacerante. Film-confessione fin dal titolo, che riprende uno dei topos più classici (la meta-narrazione) avvitandola, contorcendola su sé stessa e su sé stesso in modo così stringente da fare diventare il film altro da qualsiasi altra cosa vista negli ultimi decenni.
Come può aver peso una menzogna? In quel momento mi accorsi che era una bugia, la vita: perché è molto più facile mentire a chi ti vuole credere per forza.
Il padre impersona il figlio, il figlio impersona il padre, e poi fantasmi del passato, squarci onirici, ritorni e strutture circolari: tutto sembra collassare su sé stesso ma poi trova la quadra migliore in quei pensieri recitati fuori campo, prima stralunati, poi incredibilmente profondi, poi di nuovo grotteschi.
Illuminati da uno sguardo, reale e metaforico, che sembra non lasciare mai lo schermo: lo sguardo di Bonifacio regista e quello di Bonifacio attore, entrambi presenti, disgiunti e poi uniti in una danza coreografata male ma che arriva dritta al cuore, anzi il cuore lo prende e lo stringe nel modo che fa più male, sotto lo sguardo innocente, infiammato, bramoso di vita di un ragazzino.
L’amore non può essere invisibile: la verità invece è sempre sola.
Figlio mio… non è una gara questa vita.
E perdonami.
Confiteor non è una confessione, cioè non è solo una confessione: è la ricerca mai placata, la voglia di frugarsi dentro anche con il rischio di tirare fuori un groviglio inestricabile e forse incomprensibile di parole, frasi, ricordi, dolori, emozioni, la necessità di mostrarsi per come si è anche se come si è non piace per primi a sé stessi ma è invece qualcosa di grande, di così grande e immenso che chiunque guarda può ritrovarci un pezzetto di sé. Padri, figli, mariti, mogli, fratelli, ombre, ricordi, invenzioni, sparati via in maniera rutilante, sempre sincera. Sempre con dolore. Come nell’ultima, straordinaria sequenza, quando ti accorgi che ad un certo punto non riesci più a passare dalla vita alla finzione, o dalla finzione alla vita: perché in ogni caso stai perdendo il controllo di entrambe.

di Gianlorenzo Franzì