Come ti muovi, sbagli
La recensione di Come ti muovi, sbagli, di Gianni Di Gregorio, a cura di Marco Lombardi.

Con quest’ultimo film, piacevolmente irregolare, Gianni Di Gregorio si conferma come un’anomala meteora di carta, all’interno del panorama – mediamente assai greve – del cinema italiano. Certo, la straniante leggerezza di Pranzo di Ferragosto è lontana, e il rischio del manierismo che t’imprigiona è forte, ma il protagonista di Come ti muovi, sbagli, nonostante riprenda lo schema del suo film precedente, Astolfo, grazie ai silenzi, e al suo incedere incerto, mette più che mai in evidenza la maschera di vittima (consapevolmente passiva) del destino, così tanto da farci pensare al Monsieur Hulot di Jacques Tati. Il film, alla fine, sembra un alter ego di quei bicchieri di vino bianco che tanto ritornano in tutti i suoi lavori: questa volta ne compaiono sei, e sono altrettanto freschi, aromatici e lievemente mossi.
Di Gregorio è un professore in pensione, schiavo della sua vita ordinata all’interno di una casa ordinata: per questo l’arrivo improvviso della figlia a Roma, con tanto di nipoti, gli pare un intollerabile tsunami emotivo, visto che fino al giorno prima si schermava dai timidissimi approcci di un’amica che avrebbe voluto qualcosina di più, interpretata da Iaia Forte. La figlia ha appena abbandonato il marito, anche lui un professore universitario che però, a differenza del protagonista, ha ceduto ai tentativi di seduzione di un’abile studentessa; pentito, ed emulando il De Niro di Mission, decide di raggiungerla a piedi, sostituendo il sacco pieno di armature con un meno romantico zaino per farle capire, attraverso i 1155 chilometri fatti, la sincera entità del suo pentimento.
Sin dall’inizio lo spettatore sa già come andrà a finire, ma l’happy end viene raggiunto attraverso un piacevole slalom fra le molte risate, al limite del demenziale, e certe piccole grandi verità della vita che, nonostante la loro potenziale retorica, Di Gregorio riesce a farci sembrare nuove, e credibili. Che il sapore della solitudine, alla fine, sembri meno piacevole (tanto al protagonista, quanto allo spettatore) è un’altrettanto scontata verità che però il regista rende plausibile perché, forse, vissuta sulla propria pelle.

di Marco Lombardi