La divina di Francia
La recensione di La divina di Francia, di Guillaume Nicloux, a cura di Francesco Maggiore.
Non c’è una canonicità specifica per questo biopic, ma rappresenta la natura dell’arte stessa senza una didascalia cronologica specifica, per quel che riguarda l’aspetto temporale. E Guillaume Nicloux, regista della pellicola, sceglie di abbracciarne la suggestione, ma anche la coesione emotiva, scegliendo di raccontare la vita di Henriette Rosine Bernard, al secolo Sarah Bernhardt.
E proprio questa incarnazione, riesce a rendere la pellicola come qualcosa di unico e di irripetibile. Visivamente lo stesso Nicloux riesce a decifrare quella che è l’aura della “Voix d’or”. Questa struttura che è volutamente frammentaria e non lineare affronta tre episodi distinti, che si riflettono per conseguenza su quelle che sono le molteplici identità dell’attrice: 1886, 1896 e 1915. Queste tre annate sono contraddistinte da tre eventi importanti: ovvero l’apice della fama internazionale, la ricerca del sublime a livello teatrale e infine la mutilazione, che va a delineare l’aspetto della sua fragilità umana.
La stessa Bernhardt rifiuta in maniera ostinata di essere circoscritta ad una sola collocazione. Esteticamente, l’opera è uno sfarzoso affresco della Belle Epoque, e quello che risalta è il fatto che sia palcoscenico e la sua vita privata, sono intercambiabili, pienamente in linea con i suoi fondamenti. Forse, un certo formalismo nella regia, che va a privilegiare la composizione, va a predominare sul potenziale espressivo della pellicola. Sandrine Kiberlain è una protagonista esuberante fino al narcisismo, ma che nasconde una sua vulnerabilità. Nonostante possa rappresentare un deciso esempio di autonomia femminile, non vi è quella furibonda, ma anche sanguinante emozione, che questo personaggio ha rappresentato sia nella scena, ma anche nella vita.
Se Pietro Marcello nel suo “Duse”, sceglie di raccontare la rivale della Bernhardt, ovvero Eleonora Duse, privilegiando l’autenticità e la veridicità, Nicloux sceglie di concentrarsi nella forma esterna, quella della luce più sfarzosa. Ne vengono fuori due filosofie diverse sull’estetica filmica: da una parte quella dell’autenticità e della sottrazione emotiva promossa dall’italiana, e dall’altra quella dell’eccesso artificioso incarnato da quella francese.

di Francesco Maggiore