Roqia

La recensione di Roqia, di Yanis Koussim, a cura di Alessandro Amato.

C’è un momento, verso la fine, in cui lo spettatore si rende conto che ciò che ha visto fino a quel punto – due storie parallele di possessioni, rituali, sussurri, corpi piegati alla volontà di un’entità – non è affatto ciò che sembrava. Non è solo un horror. È qualcosa di più sottile, più scivoloso, più perturbante: il racconto di una contaminazione invisibile, che scava dentro i legami più intimi e li corrompe dall’interno. Yanis Koussim, regista algerino al debutto nella fiction di lungometraggio, sceglie il linguaggio del cinema di genere per scavare nell’oscurità del presente. Il suo Roqia, presentato in anteprima mondiale alla Settimana della Critica di Venezia, si offre come film di esorcismi, ma solo in superficie.

È, in realtà, un’indagine politica e morale sul male che abita il quotidiano. Un male che non ha bisogno di demoni per manifestarsi, perché è già presente negli uomini, nei rapporti di potere, nel linguaggio della religione quando diventa strumento di controllo, nella radicalizzazione. La roqia del titolo è un rituale coranico ancora oggi praticato in vari paesi di lingua araba per liberare le anime possedute tramite l’uso insistito della parola sacra. Ma nel film assume una valenza allegorica: ciò che dovrebbe scacciare il male, subendo un’alterazione, finisce per legittimarlo, rafforzarlo, istituzionalizzarlo. L’orrore, allora, non è l’eccezione ma la regola. Non si cela dietro le ombre, ma sotto la luce violenta di una fede che ha smarrito la pietà.

Nei primi anni ’90 Ahmed sopravvive a un incidente ma perde la memoria e non riconosce i suoi cari. Ai giorni nostri un esorcista inizia a dare segni di Alzheimer e il suo discepolo è preoccupato che qualcosa possa riemergere dalle tenebre. La struttura narrativa si articola su due piani temporali distinti, ma pur separandoli in capitoli Koussim li intreccia con sottigliezza, portandole a convergere solo nel finale e rivelando una verità spiazzante: le due dimensioni narrative sono l’una la conseguenza dell’altra. Il regista non punta al colpo di scena, ma alla presa di coscienza. Il montaggio, asciutto e calibrato, lavora sull’attesa e sull’invisibile, costruendo un’atmosfera che si nutre soprattutto dei vuoti, come la notte in cui Ahmed si muove al buio della sua casa seguendo voci che non importa se sono solo nella sua testa, esistono e persistono.

È qui che il film mostra la sua ambizione più alta: non raccontare il male come evento, ma come processo. Un processo che si insinua nel tessuto sociale, che corrompe lentamente le relazioni: tra vicini di casa, tra marito e moglie, tra maestro e allievo. In questo senso, la possessione non è che un simbolo. Non di Satana, ma del fanatismo, del desiderio di dominio, della normalizzazione della violenza. La regia, apparentemente diretta e semplice, è invece di rara precisione. La camera a spalla – tipica di una certa modalità immersiva e spettacolare del cinema contemporaneo – qui diventa strumento di tensione quasi insostenibile. Non perché segua il movimento, ma perché ne suggerisce l’imprevedibilità. Koussim sa che non serve mostrare troppo. La paura nasce da ciò che si percepisce ma non si vede, da ciò che è invisibile ma presente: l’attesa dell’irrimediabile, il sospetto, la certezza che la violenza è vicina, pronta a esplodere senza preavviso.

Così, Roqia non fa uso di jump scare, né ha derive grottesche. È un horror che rifiuta l’effetto per scavare nella causa. Il vero terrore emerge nei momenti più silenziosi. È lì che il male si manifesta mentre guardiamo altrove. Un male umano, tragicamente plausibile, alimentato dall’assenza di dubbi e dalla certezza della propria rettitudine. Koussim ha una voce ruvida, viscerale, che rifiuta l’astrazione poetica per abbracciare la carne. E lo fa con una domanda cruciale: cosa accade quando la saggezza della fede capitola di fronte alla volontà di sopraffazione? Apparentemente non resta più nulla da esorcizzare. Perché il male non viene da fuori. È già dentro. E non ci sono rituali che possano scacciarlo.


di Alessandro Amato
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