Perfect Blue
La recensione di Perfect Blue, di Satoshi Kon, a cura di Francesco Di Brigida.
Per la prima volta nelle sale italiane è arrivato Perfect Blue, animazione di Satoshi Kon del 1997 presentata oggi in versione restaurata in 4k. Ovviamente è di altissimo livello la nuova qualità sonora e visiva da gustare in sala uscendo dalla gabbia dell’home video, ma risulta ancor più interessante nel 2024 vedere un thriller di quasi trent’anni fa che parlava di stalking, affrontava la mercificazione del corpo femminile e la nudità indifesa della giovane star di fronte alla forza dell’industria audiovisiva attraverso il fenomeno delle idol, giovanissime cantanti dallo stile manga, un po’ il corrispettivo femminile delle boy-band occidentali anni novanta.
Una di queste, Mima, convinta dai suoi agenti, lascia le altre due componenti del gruppo per tentare la carriera d’attrice. Da qui inizia un percorso che si intreccia alla solitudine di una starlette, da una parte impreparata alla recitazione, dall’altra perseguitata da uno strano fan, ma soprattutto da una serie di omicidi nell’ambiente cinematografico. Ci si possono riconoscere rivoli di Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina, di Bodyguard, thriller romantico con Kevin Costner e Whitney Huston, oltre a qualche vago rimando a certi tratti erotici e pericolosi dei lavori di Adrian Lyne. Tutti film che spopolarono un decennio prima, ma l’originalità di Kon stava e sta in un lavoro minuzioso dietro la maschere edificate dalla starità, sia stilisticamente che a contenuti.
Mima è una ragazza sola nella metropoli, tra due carriere molto più grandi di lei e senza supporti realmente utili a livello umano. Da qui la decostruzione psicologica del personaggio mantiene molta forza e altrettanta lucidità ancora oggi. Anzi, forse proprio oggi le sue tante sfaccettature risultano più vivide di ieri. Inoltre la regia utilizza un linguaggio spesso intrecciato a quello onirico e allucinatorio, mescolando i piani di realtà e fantasia attraverso gli elementi di scena, e alimenta così la tensione dello spettatore. I tratti e le animazioni a volte approssimativi di certi personaggi collaterali ne danno invece una forte connotazione più pittorica che cinematografica. Come se l’autore nel ’97 non cercasse con la tecnologia la verosimiglianza ma soltanto una tela, lo schermo, da animare in totale libertà per stamparci su le inquietudini di una giovane schiacciata dallo showbiz che sono arrivate ancora intatte e vibranti fino a noi.
di Francesco Di Brigida