The Store
Le recensioni di The Store, diretto da Ami-Ro Sköld, a cura di Massimiliano Martiradonna e Ignazio Senatore.
La recensione
di Massimiliano Martiradonna
Coproduzione italosvedese nel segno del cinema sociale, anzi, del cinema politico, e questo è beneaugurante, in un periodo in cui il Paese fatica a guardarsi dentro, e a guardarsi intorno. La svedese Ami-Ro Sköldè regista e creatrice di un progetto in cui live action e stop motion si fondono mirabilmente, al servizio di una storia glocal, cioè locale, in quanto connotatamente svedese, e pure globale, in quanto allegoria dell’epoca e delle condizioni in cui versa l’Occidente tutto.
Il titolo è The Store, e fortunatamente nessuno si è arrischiato a dargli traduzione italiana. Si tratta di un supermercato, polo entropico per tre comunità: il personale di vendita, i clienti, gli homeless che vi sono stanziati vicino. Scorrono le prime immagini, di corpi reali o di plastilina, e viene naturalmente da pensare al cinema di Loach o di Brize. Poi lo sguardo si ampia, ed il pensiero vola al Romero di Dawn of the Dead, ma anche alle distopie letterarie di Jose Saramago.
Il supermercato si trasforma e si trasfigura, da luogo di incontro e di scambio diventa agone di battaglia, territorio di scontro permanente, dove le pulsioni all’acquisto di consumatori arrabbiati generano tensione crescente, dove i lavoratori sono uno contro l’altro per accaparrarsi briciole di cottimo e di straordinari, dove gli homeless attaccano reiteratamente – home(less) invasion -, il container dei rifiuti da smaltire, sorta di arca perduta dei cibi residuati o residuali. Dentro lo store va in scena un’umanità marcescente, in cui i pupazzi, le forme della plastilina stessa sembrano rappresentare zombie, o non vivi, invece che persone.
Tutto degrada o è degradato, non sembra esserci alternativa all’entropia. Guardando il film, ci si aspetta – o si anela ? – ad un rush di violenza improvvisa, epuratrice, catartica, forse un sussulto di quella che un tempo era la lotta di classe. Invece no, il film ha un finale sorprendente: mentre tutto quello che si può vendere o consumare decade e suppura, uno spiraglio di luce si apre ai margini, rinasce la possibilità di una collettività basata sulla cura, non sul profitto.
La recensione
di Ignazio Senatore
È un film per palati fini The Store, per la regia di Ami-Ro Sköld. La vicenda, ambientata in Svezia, mostra un gruppo di dipendenti del supermercato “Smart”, una catena di distribuzione dai prezzi contenuti. A dirigere il personale é Eleni (Eliza Sica), una donna che, pressata dal superiore, non ha neanche il tempo di allattare il proprio bambino, affidato alla madre, e nutrito con latte in polvere. Non se la passa meglio Jackie (Daysuri Valen), una giovane donna nera che, per non perdere il lavoro cela a tutti la gravidanza e, sul punto di partorire, scoprirà che il feto è senza vita. E’ sempre più disperato Aadin (Arbi Alviati), padre di due bambine, appassionate del pattinaggio sul ghiaccio, al quale i Servizi Sociali sospendono il contributo per l’affitto della casa.
Un’umanità di poveri diavoli, stressata, e sempre più allo stremo, costretta ad aumentare sempre più la produttività e a difendere a denti stretti un misero lavoro con un monte ore che si assottiglia sempre più. In questa furibonda lotta tra poveri, nel drammatico crescendo, il personale finirà per azzannarsi e una lavoratrice rischierà di rimetterci la pelle. A rendere ancora più disturbante la visione del film, un gruppo di senza tetto che ruba dal cassonetto del supermercato i cibi scaduti. In un finale distopico, i barattoli di alimenti putrefatti, da loro custoditi, si decompongono e invadono lo schermo.
Ami-Ro Sköld propone una regia asciutta, senza fronzoli e svolazzi, dal passo documentaristico, che spiazza chi è in sala e compone un film coraggioso che non lascia vie di fughe allo spettatore. Infinite le possibili letture legate a un film che rimanda, in qualche modo, alle pellicole militanti di Ken Loach, Laurent Cantet e Stephane Brizè e sembra voler suggerire la fine inesorabile della società capitalistica. Certo, un taglio in fase di montaggio avrebbe reso più fruibile il progetto e, soprattutto, sembra un po’ fine a sé stessa la scelta della regista di inserire degli inserti animati con dei pupazzi di cera, dal viso deturpato e deformato, con le sembianze degli attori e delle attrici protagoniste. Tuttavia l’esito complessivo è sicuramente da apprezzare.
di Massimiliano Martiradonna e Ignazio Senatore