Silent Land
La recensione di Silent Land, di Aga Woszczynska, a cura di Marco Lombardi.

La fissità delle prime inquadrature, il silenzio assordante d’intorno e l’ordine della villa (in Sardegna), che una coppia polacca ha affittato per le vacanze, suggeriscono bene l’immobilismo del loro rapporto, tutto concentrato sulla ristrutturazione della casa in cui abiteranno e più in generale sugli agi di una vita globalizzata – ivi compreso il sesso, che viene rappresentato come un atto spersonalizzato di mero consumo – che è speculare ai loro canoni di bellezza altrettanto globalizzati, come succede ai due manichini protagonisti di Triangle of Sadness.
La piscina sul mare, che a un certo punto li guarda con una soggettiva dal basso per ribaltare il consueto punto di vista delle cose, non carica acqua, ed è così che arriva un operaio magrebino (clandestino) con tanto di martello pneumatico per rompere e risolvere. La donna lo guarda con un desiderio che pare distaccato, ma solo per colpa delle convenzioni sociali, ed è allora che la coppia comincia a essere inquadrata più da vicino, così da farci entrare in certe profondità che fanno paura, proprio come succede (simbolicamente) al protagonista quando – durante un’immersione con tanto di maestro – torna subito in superficie perché preso da un attacco di panico da profondità.
In effetti in quel momento il suo rapporto con la compagna è già rotto, come esprime bene il primo piano sui cocci di cemento della piscina trapanata, perché quello stesso magrebino un giorno scivola dal bordo, cade e muore, con loro due che si limitano a chiamare il proprietario per avvertirlo dell’incidente e poi accusarsi a vicenda (in maniera sempre più esplicita) di averlo lasciato morire: forse perché il desiderio di lei poteva costituire un pericolo per la loro (ipocrita) felicità di coppia, e forse perché era solo un extracomunitario, pure clandestino. È da qui che l’ordine del film esplode attraverso delle inquadrature non più bilanciate, e dei tagli di montaggio visivo e sonoro che interagiscono sulla loro comfort zone di coppia (sottolineata dalla canzone Sereno è, di Drupi) come se la stessa macchina da presa avesse preso il posto del martello pneumatico di prima.
C’è tanto cinema delle Nouvelle vague europee degli anni ’60 e ’70 in Silent Land, ma anche un sottile senso (grottesco) dell’ironia che implode qua e là, in questa terra silenziosa di una coppia che comincia a essere vera proprio mentre inizia a raccontare delle bugie. Le responsabilità verranno spalmate anche sul nostro Paese, perché l’ospite è sacro (e quindi bisogna chiudere un occhio, soprattutto nelle aree in cui il turismo annaspa come la coppia): insomma, nessuno si farà esplicitamente del male, anche se il finale onirico del film (piuttosto chiuso, rispetto a una storia all’insegna dei tagli e delle irregolarità) suggerisce una condanna eterna che i due vivranno interiormente, da soli e insieme.

di Marco Lombardi