Quarto potere

La recensione di Quarto potere, di Orson Welles, a cura di Alessandro Amato.

Cosa si può dire o scrivere di Quarto potere di Orson Welles che non sia già stato detto o scritto? Eppure 83 anni dopo l’uscita nelle sale statunitensi (in Italia giunse solo nel 1949) dell’opera prima dell’allora prodigio ventiquattrenne, il suo ritorno nelle sale restaurato appare un atto più di altri non solo dovuto ma inevitabile se non persino scontato. Sì perché è evidente la condizione tragica che il cinema – hollywoodiano specialmente – sta vivendo in questo specifico momento del suo percorso. È evidente l’affanno con cui si cerca di tenere in vita autori, divi, filoni, generi, modelli di qualsivoglia genere o provenienza. È evidente l’ossessione (anche un po’ feticistica, ammettiamolo) con cui si riesumano anno dopo anno capolavori del passato sia grazie a rassegne e retrospettive sia nell’ottica di usarli come metri di paragone per nuovi progetti.

Espressioni ridicole come “Il nuovo Apocalypse Now” oppure “Come se Hitchcock avesse incontrato Lynch” sono all’ordine del giorno nella routine di una critica sempre più sciatta. Almeno negli anni settanta capitava di leggere penne imprevedibili come Pauline Kael, la grande denigratrice di Quarto potere, colei che sulle pagine del New Yorker ebbe l’ardine di affermare che il film fosse da attribuire certamente più allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz che al regista. Di recente ci ha pensato David Fincher con Mank a ribadire il punto, senza però forse saper aggiungere o argomentare nulla di valido e anzi infierendo sul facile mito di iracondo genio sperperatore quando ha dovuto rappresentare lo stesso Welles. Mentre il dibattito cinefilo ha ormai digerito l’iconicità della pellicola, relegandola alle cicliche classifiche di fine decennio e permettendo persino che cedesse lo storico trono.

È quindi con entusiasmo che riaccogliamo Quarto potere sul grande schermo, sperando che nuovamente, per l’ennesima volta, e che non sia l’ultima, meravigli un’intera generazione di spettatori. Cosa rimane di questa incredibile lezione di titanismo espressivo e narrativo? La storia di Charles Foster Kane, magnate della stampa e imperatore del nulla, l’infanzia da orfano, l’ascesa e la caduta, i matrimoni falliti, i successi. La costruzione a flashback e flashforward, la profondità di campo per mettere a fuoco ogni dettaglio allo stesso tempo, le riprese dal basso verso l’alto a schiacciare le teste. La complessità di un’esistenza che esemplifica le scelte di tutti gli uomini bigger than life della storia dell’umanità. Rimane il coraggio quindi. Un’ambizione, quella wellesiana, dovuta certo alla giovane età in cui gli venne concessa libertà assoluta dalla casa di produzione RKO, ma anche alla sua idea di creazione, la volontà di un artista che per funzionare al meglio deve sentirsi – citando le sue parole – «un po’ come Colombo». In fondo, Quarto potere è soprattutto il lascito di un pioniere.


di Alessandro Amato
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