El paraiso

La recensione di El paraiso, di Enrico Maria Artale, a cura di Joana Fresu De Azevedo.

Questa 80a edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica sta offrendo diversi ed interessanti esordi. Capaci di affrontare, in modo anche nuovo e appassionato, stringenti tematiche sociali, spesso finora accantonate o messe ai margini del dibattito.

È il caso di El paraíso, opera prima di Enrico Maria Artale realizzata partendo da un soggetto scritto in collaborazione con Edoardo Pesce. Attore chiamato anche a interpretare il ruolo del protagonista, Julio Cesar, vittima di una complessa e morbosa relazione con la madre, con cui vive in una casa improvvisata sull’argine del fiume nella prima periferia di Fiumicino.  Julio ormai ha quasi quarant’anni, ma non riesce a staccare il cordone emotivo che lo lega alla Madre (una intensa Margarita Rosa De Francisco, attrice colombiana originaria proprio della città di Cali da cui il suo personaggio dice di arrivare). Di lei, oltre alle dichiarate origini colombiane, nemmeno conosciamo il nome, essendo l’essenza di tutto il suo personaggio racchiuso nel suo ruolo genitoriale. La sua instabilità (economica come psichica) la porta a coinvolgere il figlio in una rete internazionale di spaccio di droga, agendo da ospiti dei corrieri che arrivano dalla Colombia.

Come dichiarato dallo stesso Enrico Maria Artale, El paraíso si inserisce in un profondo ed intimo percorso autobiografico oltre che artistico che lui stesso ha intrapreso durante la lavorazione del suo primo documentario, Saro, un film in prima persona che racconta del suo primo ed unico incontro con il padre, avvenuto quando il regista aveva venticinque anni.

Il mio obiettivo, creativo e forse psicoterapeutico – dice Artale –  era conoscere un padre assente ma durante il processo di rielaborazione degli eventi mi sono accorto che stavo piuttosto approfondendo la comprensione della relazione con mia madre, più di quanto non avessi mai fatto prima. Questa scoperta ha generato un sentimento di accettazione e di conseguenza un amore rinnovato talmente forte da entrare nel film che intanto avevo iniziato a scrivere, fino a diventarne il cuore. L’idea primigenia su cui stavo già lavorando veniva da una conversazione con Edoardo Pesce, ci eravamo conosciuti sul mio primo film e da allora era nata un’amicizia fraterna. Avevamo deciso di svilupparla insieme, ma era una storia ancora lontano da me e io avevo fortemente bisogno, dopo un esordio nato quasi su commissione, di ritrovare qualcosa di fortemente personale.

In El paraíso si rileva pienamente la pressione di questi obiettivi di analisi intima dell’io interiore del regista e della sua ricerca di un senso appartenenza negata. Più difficile, invece, non notare come, partendo dai presupposti di una storia forte come quella del rapporto tra Julio e sua madre, il film si abbandoni a manieristiche lungaggini. Non funzionali alla narrazione quanto quasi a voler cogliere l’occasione imperdibile di una struggente come poche altre volte interpretazione messa da Edoardo Pesce al servizio del film. Un film che avrebbe potuto rasentare la perfezione. Se fosse stato un corto di 20 minuti piuttosto che un lungometraggio di quasi due ore.


di Joana Fresu De Azevedo
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