Venezia74 – Agnelli (Giornate degli Autori), La voce di Fantozzi (Venezia Classici)

Due documentari, presentati in anteprima a Venezia 74, scatenano un cortocircuito del nostro immaginario, tra le vette del successo e del potere e gli abissi dell’anonimato e dell’impotenza.

Giovanni Agnelli, detto Gianni, e il ragionier Ugo Fantozzi, il “mega-manager galattico” (comunque globale) e l’uomo e l’impiegato “senza qualità”. Due documentari,  presentati in anteprima a Venezia 74, scatenano un cortocircuito del nostro immaginario, tra le vette del successo e del potere e gli abissi  dell’anonimato e dell’impotenza, tanto sul piano personale che professionale. Se Agnelli, di Nick Hooker (evento speciale delle “Giornate degli Autori”, produzione HBO che in Italia si vedrà solo su Sky),  rievoca la figura, pubblica e privata, dell’ “Avvocato”, La voce di Fantozzi di Mario Sesti (evento speciale di “Venezia Classici”), ripercorre la vita della più famosa delle “mostruose” creature di Paolo Villaggio (ma non lo erano meno  Giandomenico Fracchia e il Professor Kranz), sicuramente la più multiforme e multimediale: vide la luce nel 1968 nella trasmissione radiofonica “Il sabato del villaggio” e sulle pagine dell’ “Europeo”, prima di approdare agli enormi successi in campo editoriale – il primo libro è del  1971 – e cinematografico – specie con i primi due film diretti da Luciano Salce, “Fantozzi”,  1975, e “Il secondo tragico Fantozzi”, 1976.

L’obiettivo dichiarato del regista e critico cinematografico Mario Sesti era quello di mostrare l’espansione dell’immaginario “fantozziano” (solo “fantozziano” e “felliniano”, come ricorda Benigni nel film, sono diventati aggettivi di uso comune) attraverso i transiti e gli incroci tra i diversi media. La voce di Fantozzi – un progetto che non ha ancora raggiunto la sua forma definitiva ma con la cui proiezione la Mostra ha reso omaggio al genio del grande attore e scrittore genovese, a due mesi dalla sua morte – nasce infatti anche dal progetto del recentissimo audiolibro (edito da Volume) del best-seller del ’71, con la voce narrante  dello stesso Villaggio, di cui vediamo alcuni momenti in studio di registrazione.  E nel film, grazie alla graphic-art, si ricrea direttamente dalla immaginifica prosa di quel libro la “drammatica” partita di tennis nella nebbia tra Fantozzi e il suo collega Filini.  Del resto, quella di Fantozzi è al tempo stesso l’invenzione di una maschera e di un linguaggio nuovi e inimitabili che rappresenteranno una rottura netta rispetto ai canoni della comicità letteraria e cinematografica (così come l’apparire del presentatore “cattivo”, il professor Kranz, avevano rivoluzionato quelli dello show televisivo).

I materiali d’archivio e le tantissime testimonianze, oltre a quelle dello stesso Villaggio,  di colleghi e compagni d’avventura (da Arbore a Neri Parenti, da Benigni a Dario Fo),  di  alcuni degli attori storici (come Milena Vukotic e il “mega-direttore galattico” Paolo Paoloni, ma anche della sua principale controfigura sul set  Franco Uckmar), esperti di cinema e intellettuali di diverse discipline e generazioni, analizzano le tante facce dell’uomo e dell’artista e le diverse dimensioni del suo personaggio.

Ma è il sociologo Domenico De Masi a ricordarci – allargando l’analisi al contesto storico e politico in cui Fantozzi fece la sua apparizione – che quella sua maschera e quel linguaggio nuovi segnalavano – anche a livello dell’immaginario collettivo – la fine dell’era degli “operai” e l’avvento dell’era degli “impiegati”. Impiegati, che nel frattempo, cresciuti nel numero,  erano finiti per ritrovarsi altrettanto vessati quanto gli operai, almeno sul piano psicologico (Fantozzi e le sue vicende  diventeranno negli anni punto di riferimento di molta letteratura sul mobbing e sul para-mobbing nelle aziende).

La rivolta dell’impiegato pauroso e servile contro l’azienda “totale” (quale fu certo la Fiat sin dalle origini), che organizzava la vita dei suoi lavoratori anche oltre l’orario di lavoro, resta consegnata indelebilmente alla nostra memoria di spettatori dalla celebre invettiva di Fantozzi alla fine della proiezione de la “Corazzata Potemkin” al cineforum aziendale (ne “Il secondo tragico Fantozzi”). Rimane comunque un gesto isolato e velleitario, per quanto liberatorio.

Di tutt’altro segno, e  ben più gravida di effetti politici fu, pochi anni dopo, nell’Italia stretta nella morsa del terrorismo e dell’instabilità politica dopo l’omicidio Moro,   la celebre “marcia dei quarantamila”, i quadri e gli impiegati della FIAT che sfilarono per Torino nell’ottobre 1980  segnando oltre alla fine del lungo sciopero operaio, la sconfitta dei sindacati, del PCI di Berlinguer, e l’avvento di una nuova era  nelle relazioni industriali.  Quell’evento,  il conflitto di cui fu lo sbocco, e in generale il rapporto tra la FIAT, i partiti e i sindacati italiani, nel film di Nick Hooker (che aveva già diretto per la HBO un documentario su Nora Ephron) meritano solo  brevi cenni, per giunta secondo una lettura politica a senso unico, da ufficio-stampa Fiat. Del resto, Agnelli è un prodotto destinato al pubblico U.S. e al mercato globale e muove da  un punto di vista tipicamente statunitense sulla figura di Gianni Agnelli, rispondendo alla tipica proiezione fantastica americana sull’uomo italiano di successo, con il suo stile, la sua eleganza, ma anche la sua abilità come business man e come mediatore. Piuttosto, si enfatizza il peso che Agnelli ebbe nella politica internazionale, come riferimento di stabilità nel fronte europeo nell’ottica di Washington (non a caso Henry Kissinger è il primo dei testimoni che appare nel film; e il regista nella presentazione del film conferma la tesi secondo cui fu Gianni Agnelli a dissuadere la CIA da intervenire in maniera diretta nel nostro paese). Allo stesso modo, se il racconto parte giustamente dalle macerie del dopoguerra e dal ruolo fondamentale che la FIAT ebbe nella ricostruzione e nel “miracolo economico” italiano, ben poco si dice (se non che fu un “ottimo manager”) della lunga e controversa stagione di Valletta, durata per venti anni sino al 1966 quando Agnelli decise di assumere il comando dell’azienda di famiglia dopo aver dominato a lungo le scene e le cronache del jet-set internazionale.

In ogni caso,  il regista (grazie anche ai copiosi materiali d’archivio, dalle interviste con le sorelle, amanti, amici, e persino con il giardiniere e l’autista, ad altri filmini in Super8 riscoperti da poco di Benni) riesce a rendere vivide le tante contraddizioni dell’uomo Agnelli e a rivelarci infine la sua solitudine interiore. Il film, infatti, consente diversi livelli di lettura, dalla favola glamour alla tragedia scespiriana (specie nel racconto della guerra fratricida tra Gianni e Umberto scatenata negli anni ’90 dalla Mediobanca di Cuccia e da Cesare Romiti), al dramma personale e collettivo di un uomo che aveva perso da giovane i genitori in terribili incidenti e dovette affrontare, pagandone il peso di una tremenda responsabilità morale, il suicidio del figlio Edoardo.

Alla sua morte, nel 2003, un’altra visione imprenditoriale, quella di Silvio Berlusconi, si era da tempo affermata in Italia, grazie ad alleanze di segno diverso, ed era anzi all’apice del suo successo politico. A ben pensarci, le chiavi di quel successo (il sogno dell’elettore medio maschio italiano e dei tanti eterni Fantozzi) erano state ancora e sempre le donne e il calcio (mancava solo l’auto). Però,  che differenza di stile…


di Sergio Di Giorgi
Condividi