Un ricordo di Francesco Rosi
In occasione della scomparsa del regista ripubblichiamo un testo di Anton Giulio Mancino già presentato su CineCriticaWeb e su CineCritica.
In occasione della scomparsa di Francesco Rosi (autore di capolavori come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città e Il caso Mattei) e in omaggio alla sua figura (centrale nella storia del cinema italiano), ripubblichiamo un testo di Anton Giulio Mancino già presentato su CineCriticaWeb e su CineCritica versione cartacea. Oltre al testo in questione il Primo Piano dedicato a Francesco Rosi realizzato per CineCritica comprendeva un saggio di Roberto Chiesi e un’intervista a cura di Piero Spila e Bruno Torri.
Rosi, voce presente del verbo indagare
di Anton Giulio Mancino
Il presente intervento riproduce, nella seconda parte riguardante il confronto linguistico tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato e sui vari film fatti o non fatti su Portella della ginestra, l’inizio del terzo capitolo La terra che tremò a Portella (pp. 167-178) del volume di Anton Giulio Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario (Kaplan, Torino, 2008).
Il grosso errore, oggi, che si potrebbe commettere con il cinema di Rosi è quello della monumentalizzazione. Celebrare Rosi ha un senso soltanto se si cerca l’attualità e il senso profondo, storicamente rilevante, delle sue opere. Se si comprende fino in fondo la capacità che esse hanno avuto e continuano ad avere, la capacità di dialogare con il presente, come dimostrano anche le più recenti messe in scena delle commedia di Eduardo De Filippo, Napoli milionaria, Le voci di dentro e Filumena Marturano, tutte rigorosamente scelte sulla base di una ricerca complessa di una verità non immediatamente a portata di mano. In Napoli milionaria evidentemente Rosi è tornato a esplorare una realtà mutata, del “dopo”, in cui la guerra appena terminata non ha portato via i problemi sociali, politici e culturali del “prima”. Fare i conti con realtà che riemergono, a fronte di una situazione all’apparenza pacificata e di verità rimosse, è stata sempre una delle massime prerogative rosiane. Ne Le voci di dentro è ancora una volta la verità all’apparenza visionaria e improbabile, ma forse soltanto indicibile e scomoda per tutti a essere al centro dell’azione. Solo le presunte “voci” indimostrabili e soggettive possono cercare di smuovere la superficie tranquilla e colpevole di una piccola comunità rionale. In Filumena Marturano non si può ignorare che la soluzione circa la paternità del protagonista, che pure cerca di indagare, consisterà nell’accettazione di una triplice verità: i tre figli ugualmente da accettare come “suoi”, imposti dalla donna, corrispondono ad altrettante chiavi di lettura di una verità molteplice e plurale, con cui l’individuo contemporaneo deve fare i conti. Non per rassegnarsi al relativismo, né per cedere blandamente e opportunisticamente a tentazioni ecumenistiche, ma per farsi carico di un meccanismo aperto e compresente di conoscenza che procede per inclusioni e non per esclusioni.
Non sorprende dunque che mentre Rosi “fa” teatro, il cinema italiano dell’ultimo decennio abbia riscoperto, anche se gli esempi significativi non sono tantissimi, questa virtù rimossa di indagare sulla verità per indizi. E le radici rosiane, volontarie o involontarie, di questa esigenza di fare del grande schermo lo spazio di uno smascheramento e approfondimento di verità politicamente rilevanti, di un contraddittorio ineludibile con la realtà. Due esempi, quello di Segreti di Stato (2003) di Paolo Benvenuti e di Gomorra (2008) di Matteo Garrone, bastano da soli a far comprendere questo fitto sistema di riferimenti che non sono soltanto cinematografici ma storici, dentro una concezione della rappresentazione filmica strutturata secondo le modalità della ricerca per indizi di verità politiche negate. 1. Cominciamo dall’esempio più recente: Gomorra è inevitabilmente un film che dialoga con il passato. Un passato-presente. O che comunque deve fare i conti con qualcosa che è stato detto, immancabile premessa di un discorso destinato a proseguire. In particolare, Scampia e le sue Vele, il massimo simbolo del degrado urbano, sociale e architettonico napoletano, oggi quasi tutte abbattute, sono anche l’elemento visivo che collega due modelli di rappresentazione cinematografica in Italia di una realtà rimossa, inquietante, drammatica. Che assume per forza di cose una connotazione politica. A distanza di quindici anni, a restituire sullo schermo l’immagine di questa dimensione impenetrabile e scandalosa di una città “sconosciuta” sono stati, non a caso, due autori peraltro molto diversi e distanti come Rosi e Garrone, che oggi ci sembrano offrire spunti per una riflessione sul rapporto tra cinema, politica e realtà. Le Vele di Scampia, che siglano l’inizio di Diario napoletano nel non lontano 1992 e quest’anno in Gomorra tornano a configurarsi come teatro angusto e condominiale della mattanza tra clan, istituiscono una continuità discorsiva che merita di essere approfondita. Rosi nel suo Diario napoletano individuava in Scampia la prova visibile di uno scempio di lunga durata, il risultato allora come oggi più appariscente dell’ingerenza del potere politico sullo spazio urbano, sociale e antropologico che a Napoli diventava “spettacolo” scandaloso. Diario napoletano era una summa raccontata e vissuta in prima persona da Rosi di una progressiva presa di coscienza anche cinematografica di un fenomeno involutivo che a Napoli, la sua città natale, aveva assunto un significato particolare. E che nella sua filmografia, a più riprese, era stato colto e rilanciato. Il ragionamento rosiano, film dopo film, ha ribadito come la Napoli “italiana” de Le mani sulla città (1963) sia stato il presupposto fondamentale di quella di Diario napoletano, e la speculazione edilizia più spregiudicata abbia nel giro di quarant’anni portato alle estreme, drammatiche conseguenze un fenomeno di distacco della politica dalla società civile. La filmografia rosiana, inaugurata oltretutto da La sfida (1958), attraverso una serie di parziali ma inequivocabili incursioni napoletane (in Lucky Luciano, 1973; Cadaveri eccellenti, 1976; Tre fratelli, 1980), è tornata sempre a occuparsi di Napoli, a portarla sullo schermo a intervalli regolari, a registrarne la progressiva involuzione, a fare ogni volta il punto della situazione. In Diario napoletano, grazie a una delle più incisive modalità rappresentative rosiane (il totale dall’alto della città, emblematico di un problema complesso e di vaste ed evidenti dimensioni, lo si ritrova nelle sequenze inaugurali de Le mani sulla città e nel finale di Dimenticare Palermo), si riesce ancora una volta a capire tutto ciò che succede dentro la città, sotto la superficie, a indovinare lo status quo in continuo deterioramento, con un semplice colpo d’occhio, uno sguardo dall’alto, distante, moralmente distanziato. Indignato. L’autore di Diario napoletano, trent’anni dopo Le mani sulla città, non aveva più bisogno di scendere nelle strade. Gli bastava attraversarle occasionalmente, per constatare con profondo disagio, trovarsi sempre a contatto di gomito con una storia di secolare malcostume politico-amministrativo e di disfunzionalità estetica e urbanistica. L’aspetto funzionale di quel film televisivo, costruito come un piccolo reportage autoreferenziale e autobiografico, riguardava proprio l’ammissione da parte di un intellettuale meridionale di formazione salveminiana e sensibile alla “lezione dei fatti”, di un dolente senso di estraneità verso una realtà immobile, dietro la quale non occorreva più scoprire o rivelare la responsabilità politica, tanto era evidente. L’evidenza era riservata alla sequenza inaugurale del film, l’unica sottratta alla percezione diretta dell’autore-protagonista: sequenza sufficiente a restituire, prima dall’alto, poi faccia a faccia con un gruppo di giovanissimi arrestati durante un blitz della polizia, l’impressione chiara di un delitto consumatosi ai danni di quella plebe senza destino, senza identità, senza rappresentanza politica. Quel delitto, colto in tutta la sua vergognosa evidenza era Scampia, i suoi edifici allineati, le famigerate Vele dove si saldavano malavita, mala-architettura e mala-politica.
Ecco, si può dire che Garrone, scegliendo di volgere il proprio sguardo a partire dal sottomondo di Scampia, scegliendo di tradurre l’inchiesta romanzata di Saviano in un racconto corale di ordinaria e sistematica malavita, intercetta inevitabilmente il magistero di Rosi. Eppure Gomorra, il film, non segue il metodo rosiano. Non segue cioè il metodo “politico-indiziario”. Non conduce in proprio, basandosi su documentazione di prima mano, un’inchiesta volta a far luce, concatenando una serie di indizi significativi, su una verità politicamente rilevante. In parole povere, il film Garrone non soltanto non cerca di veicolare l’inchiesta contenuta del libro di Saviano, ma non prova nemmeno a metterla in scena o in inquadratura. Film come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Lucky Luciano o Il caso Mattei (1972) hanno indagato direttamente sui fatti, rappresentando questa indagine, organizzandosi esteticamente sulla base di questa esigenza di verità. Gomorra di Garrone non ha cercato minimamente di somigliare a «Gomorra» di Saviano. Perché con ogni probabilità sarebbe stata una scommessa persa in partenza. Un regista serio, intenzionato a realizzare un film altrettanto serio da un libro serio, evita l’effetto di somiglianza. Rielabora piuttosto la materia. Il film evita di ricadere nell’equivoco ingenerato dal libro. Garrone ha scelto la strada del racconto, dei racconti, mentre Saviano ha mimetizzato l’inchiesta servendosi di un protagonista e portavoce fin troppo onnisciente: una sorta di se stesso versato in un universo minuziosamente descritto dall’interno. Eppure la conoscenza di questo singolare insider si alimenta spesso e volentieri di documentazione di provenienza istituzionale che esula dall’osservazione diretta degli avvenimenti. Il “romanzo” è una sorta di pretesto per imbastire e divulgare l’inchiesta. La contraddizione dell’opera di Saviano, contraddizione che non ne compromette comunque l’efficacia, ha riguardato perciò l’accuratezza sul piano letterario e l’introduzione di un preciso punto di vista, che però sono in netta contraddizione con la documentazione, con i fatti, con la conoscenza ampia e pluridimensionale dei fenomeni descritti e di quella realtà a largo spettro evocata. L’autore cinematografico preferisce invece costruire storie a partire dalla macrostoria ordita dallo scrittore accumulando microstorie. Il film sortisce dunque un effetto diverso: interpreta l’insieme, sintetizzato in una serie di segmenti esemplari che si avvicendano mediante l’uso del montaggio alternato. L’esito ottenuto da Garrone, di questa interpretazione dell’inchiesta-romanzo (e non romanzo-inchiesta) di Saviano, è una visione dell’universo criminale coerente e nemmeno poi tanto paradossalmente funzionante. Garrone ricostruisce quello che Saviano ha giustamente definito in due diverse circostanze un «sistema». Un anno prima dell’uscita di «Gomorra», il giovane scrittore napoletano aveva partecipato a un libro collettivo su Scampia, «Napoli comincia a Scampia», con un intervento privo di qualsiasi suggestione romanzesca. Un intervento – diremmo oggi – propedeutico, dove per la prima volta si elaborava questo concetto, indispensabile per comprendere anche l’approccio “sistemico” scelto dal film pur dentro coordinate narrative: «La parola “camorra” – scrive Saviano nel 2005 – è scomparsa, o meglio non è mai esistita. Fu Raffaele Cutolo l’ultimo e l’unico a foggiare la retorica camorristica, generando l’orgoglio e il significato di questa parola. Nessun altro. Ora il termine è “sistema”. Non c’è affiliato, adulto o ragazzino che non si riferisca al suo clan con il termine “sistema”: “Appartengo al sistema di Secondigliano”, “Appartengo al sistema di Casale”» . Il concetto viene ripreso ed esteso nel best-seller del 2006: «Sistema, un termine qui a tutti noto, ma che altrove resta ancora da decifrare, uno sconosciuto riferimento per chi non conosce le dinamiche del potere dell’economia criminale. Camorra è una parola inesistente, da sbirro. Usata dai magistrati e dai giornalisti, dagli sceneggiatori. È una parola che fa sorridere gli affiliati, è un’indicazione generica, un termine da studiosi, relegato alla dimensione storica. Il termine con cui si definiscono gli appartenenti a un clan è Sistema: “Appartengo al Sistema di Secondigliano”. Un termine eloquente, un meccanismo piuttosto che una struttura. L’organizzazione criminale coincide direttamente con l’economia, la dialettica commerciale è l’ossatura del clan» .
Da qui parte Garrone: dalla concezione di un mondo negletto, cupo e impresentabile, violento e irriducibile, che obbedisce a leggi che ne garantiscono spietatamente la sopravvivenza. Un mondo che pure esiste, all’ombra delle ultime Vele di Scampia scampate all’abbattimento. Piaccia o no, lascia intendere il film, le leggi che regolano quel mondo garantiscono anche la contiguità all’altro mondo, questo mondo, il mondo dello spettatore che paga il biglietto e assiste in sala allo “spettacolo” sconcertante e insostenibile, riconoscibile solo cinematograficamente (ad esempio, nei film di Scorsese). Un mondo, quello dello spettatore medio, che è pur sempre fatto di luce rassicurante e visibilità ordinaria, e che torna dopo il buio della proiezione. Garrone sfata l’idea del parallelismo tra i due mondi, suggerendone la reciprocità, la contiguità. Uno non può esistere senza l’altro, uno spiega l’altro, si ricollega all’altro: senza il mercato e la concorrenza violenta dell’indotto dei tessili campani e cinesi non ci sarebbero le passerelle della società-spettacolo. E l’esempio scelto è quello della Mostra del Cinema di Venezia, proprio per non rinunciare alle implicazioni che ogni film ha con il proprio sistema di riferimento, cioè il cinema come pratica sociale, mondana, di produzione e consumo. Allo stesso modo, senza la meccanicistica mattanza sul territorio, delle famiglie che si smembrano, si dividono e si distruggono a vicenda accumulando macabri «punti», non ci sarebbe il controllo sul territorio. Un controllo esercitato attraverso la re-distribuzione di quote del reddito camorrista su cittadini di seconda o terza classe, che costituiscono all’occorrenza anche le basi del consenso, della ricezione di modelli culturali e consumistici di massa. Garrone racconta, stabilendo una perfetta equidistanza da tutto e tutti, la logica di questo «sistema», di questo para-Stato assistenziale, che periodicamente sembra andare in tilt, ma semplicemente si rigenera, si assesta, incrementando il numero medio di morti ammazzati, come la superficie terrestre si assesta attraverso fenomeni sismici all’apparenza devastanti. Comprendere il perché politico, sociale, culturale e storico di una simile realtà, riandare alle radici, quelle indagate da Rosi, è ormai impresa difficile e vana a fronte della disparità enorme tra cause ed effetti. Tanto vale pensare a Scampia come a un mondo infestato da un morbo spietato, dalla peste, come suggerisce polemicamente e tragicamente il cantautore Enzo Avitabile nella canzone A peste di cui è interessante riportare alcune strofe molto eloquenti e perfettamente in linea con il progetto di Garrone:
Ave Maria / ie veng acopp’Scampia / addo’na vota era canapa / mo spade e neve pe’a via / sentimenti i scarffati / journe uno pe nato / na carezza male asciuta / figlio de Dio annasciuti.
Santa Maria / nun n’ce’sta niente a capì / e’ nu munno de mbruoglie / chiu speriscie e t’attacche / chiu t’arravouglie / e’so vulie e so verrizzi / profumo ca puzza / sott’u surore anema chete / fa pantano e fete.
A peste! / A peste!
A paura nce fa addiventa’ furesta / e s’accidono mamme e pate, frate / uno contro a nato / ma chi l’ha vuluta, chi nce l’ha / mannata.
A peste! / A peste!
Il Gomorra di Garrone tuttavia introduce una variante, non trascurabile, al già visto, al già sentito, al già letto: che mentre la “vecchia” criminalità delle faide tra clan riusciva persino a garantire una sorta di funesta conservazione della specie, la “nuova” ondata criminale sembra orientata all’autodistruzione: l’escalation degli omicidi incrociati che si consumano a Scampia assomiglia molto al patto scellerato tra nord e sud Italia in materia di rifiuti tossici. Non c’è equilibrio, non c’è simmetria. Non c’è «sistema». Solo la realistica prospettiva di un annientamento bilaterale. Ne consegue che l’effetto «sistema» riassunto e spiegato nell’inchiesta-romanzo di Saviano nell’omonimo film di Garrone perde volutamente e spregiudicatamente ogni contatto con i fatti, con le statistiche, i numeri, le date, i nomi, le circostanze specifiche, i riferimenti documentali. Ma recupera un rapporto con la realtà sul piano dell’invenzione escatologica di personaggi, storie, esiti necessari a far riflettere. Introduce cioè un senso possibile, ai limiti dell’assurdo, del presunto «sistema». Ha ragionato quindi su quanto Saviano ha scritto e ha trasformato in immagini e suoni l’esito ultimo di tale ragionamento. Rispetto a Rosi, onde evitare un confronto rischioso, Garrone ha preferito entrare, mischiarsi, seguire in maniera maniacale gesti e azioni. Ripristinare la centralità dell’uomo, laddove quarant’anni fa Rosi ha preferito ridimensionarlo rispetto alla visione microfisica e strutturalista di un potere a dismisura d’uomo. Eppure l’allievo non ha del tutto dimenticato la lezione del suo implicito maestro, poiché è riuscito a raggiungere un grado di costante ed elevato straniamento, pur dentro la completa adesione dei personaggi ai loro ruoli e delle riprese agli ambienti, determinando la distanza critica necessaria. Ossia la fredda riprovazione morale e civile che Rosi ha più volte espresso e concettualizzato non accontentandosi solo di attingere alle inchieste, ma di proseguirle o di prenderle in mano ex novo.
2. Questa necessità di fare del cinema il luogo deputato delle inchieste a carattere politico ha radici lontane. Tutto è cominciato infatti nei primi anni Cinquanta. Esattamente nel 1952. Anche dall’iniziativa degli allora molto giovani Rosi ed Petri, con cui inevitabilmente oggi ogni autore cinematografico che voglia fare del cinema politico sente il bisogno di fare i conti. Le premesse di quello che possiamo chiamare il film “politico-indiziario” sono infatti germogliate sulle ceneri del neorealismo e hanno dati i loro frutti nell’arco ininterrotto di decenni, pur tenendo conto dei diversi contesti storici, politici e istituzionali. Roma ore 11 (1952) di Giuseppe De Santis, scaturito da una inchiesta giornalistica di Elio Petri, aveva riproposto il rapporto tra il singolo, o più correttamente tra i casi singoli, e la collettività, mentre per vie traverse lo sguardo si allargava, nell’arco dei pochi minuti della sequenza iniziale, all’intero panorama politico italiano e mondiale: ai partiti, al dibattito parlamentare, alla guerra fredda, alle tensioni interne e alla divisione del mondo in blocchi armati. Tale sguardo d’insieme non doveva risultare troppo esplicito, se si voleva evitare che anche la censura dell’epoca cogliesse il nesso tra il quadro concreto (la cronaca) e la cornice ipotetica (la politica), esercitando il proprio potere di veto su una verità incombente su tutto e tutti, sullo sfondo e dietro le quinte. Cos’altro chiedere a un film cui non era permesso fare politica né occuparsene a qualsiasi livello? La denuncia di Roma ore 11 suggeriva allo spettatore accorto che bisognava comunque spingersi più in là, politicamente: oltre l’evidenza dei fatti, oltre la parete provvisoria offerta dalla cronaca, sfruttando persino le coincidenze. Si trattava di mettere in moto un procedimento strettamente logico, non ideologico. Più pragmatico e contingente dell’auspicato passaggio dalla cronaca alla storia o dal neorealismo al realismo. In mancanza di trasparenza e di evidenza, non restava che acquisire dati di fatto, resi altrettanto rilevanti sulla base di valide congetture, per smascherare l’occultamento istituzionalizzato della matrice politica dei fatti. Processo alla città (1952) di Luigi Zampa, ove Rosi, prendendo le mosse da due libri-inchiesta sul processo Cuocolo, firmò il soggetto assieme a Ettore Giannini, non era soltanto contemporaneo di Roma ore 11, ma anche complementare. Nel film di Zampa lo spunto sarebbe stato non più un tragico incidente ma una trama delittuosa e un caso giudiziario della Napoli di inizio Novecento che, nonostante la verace e puntigliosa ricostruzione del passato, adombrava un presente tangibile: uno schema analogo a quello de Il processo di Maria Tarnowska, che il «Visconti “cronista” giudiziario» , reduce dai processi rappresentati in Giorni di gloria, non riuscì a far diventare il suo secondo lungometraggio. Sarebbero occorsi altri dieci anni perché, senza più filtri narrativi (Roma ore 11) o cornici storiche (Processo alla città), il bandolo della matassa dell’inchiesta diventasse un fatto di cronaca nera recente, di chiara impronta politica. Dieci anni perché Salvatore Giuliano potesse occuparsi direttamente della strana uccisione del più imprendibile e celebre bandito siciliano del dopoguerra. E altri dieci per rimettere tutto in discussione in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), dove l’indagato era a sua volta un insospettabile uomo dello Stato che, indagando su se se stesso, si prendeva gioco della legge e del metodo indiziario. Di decennio in decennio, non sempre seguendo una linea progressiva, il paradigma politico-indiziario si andava adattando ai tempi. Tanto che nel 1962 e nel 2003, Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, pur affrontando lo stesso argomento, si sarebbero contrapposti seguendo divergenti percorsi rappresentativi.
L’impressione che il film di Rosi sia più realistico di quello di Benvenuti non deve far dimenticare che in entrambi i casi non viene prodotta né riprodotta la realtà ma dei “surrogati” di realtà, trattandosi di una realtà politica, manipolata, non limpida. Perciò da decifrare e ripensare su base nel contempo documentale e ipotetica. In Salvatore Giuliano l’effetto realistico di questi surrogati è maggiore rispetto a Segreti di Stato. Tuttavia, come si comprende da una semplice battuta iniziale, l’eccesso di ricostruzione della realtà può celare il suo esatto opposto. Ascoltando la monotona descrizione rituale fatta del corpo di Giuliano supino al suolo, il procuratore interviene puntigliosamente solo per “correggere” l’uso improprio di una preposizione:
Funzionario: L’anno 1950 il giorno 5 del mese di luglio, in Castelvetrano in via Fra Serafino, esiste un cadavere di sesso maschile, dall’apparente età di anni trenta, che giace in posizione prona con la gamba sinistra leggermente piegata in modo da formare quasi un angolo retto. Il braccio destro è disteso con pugno chiuso, mentre il sinistro è piegato sotto il torace. Il viso poggia a terra con la guancia sinistra… Procuratore: Direi sulla guancia sinistra.
Ma dopo le prime due inquadrature fisse in campo lungo dall’alto e in campo medio ad altezza uomo, l’autore smentisce quella verità precisa solo in apparenza. Ci tiene a sottolineare che siamo comunque di fronte a una mistificazione, a un possibile falso. A quelli che Eco chiama «stimoli surrogati»:
Una buona regola per distinguere tra stimoli naturali e surrogati mi sembra la seguente: se sposto il mio punto di vista vedo qualche cosa di nuovo? Se la risposta è negativa, lo stimolo è surrogato. Lo stimolo surrogato cerca di impormi la sensazione che avrei se mi ponessi dal punto di vista del Surrogatore. C’è davanti a me il profilo di una casa […]; se mi sposto, vedo l’albero dietro alla casa? Se non lo vedo, lo stimolo è surrogato. Solo usurpando il punto di vista di chi ha visto prima di me, posso definire se uno stimolo è surrogato o no. Lo stimolo surrogato mi impedisce di vedere (o sentire) dal punto di vista della mia soggettività, intesa come la mia corporalità; delle cose mi dà solo un profilo, non la molteplicità dei profili che la percezione attuale mi offrirebbe. Per decidere se uno stimolo sia surrogato o meno basta spostare la testa .
L’atto di «spostare la testa», che corrisponde al «gesto cubista» del cinema indicato da Casetti, ma anche al «maximum di simultaneità» di cui parlava il celebre giurista e avvocato Carnelutti, in Salvatore Giuliano, mentre sono in corso i rilievi tecnici sul cadavere, si compie attraverso un doppio movimento della macchina da presa: una prima carrellata con correzioni panoramiche procede da destra a sinistra, dal dettaglio del braccio destro di Giuliano alle sue gambe, seguendo la sagoma del corpo; subito dopo però il movimento si ripete, ripercorrendo in senso orario e opposto quello precedente, descrittivo, ufficiale, andando stavolta dalle gambe al braccio. Il mezzo cinematografico, che consente di contemperare più punti di vista, specialmente in contrasto fra loro, sviluppa una lettura critica dei presunti fatti. Rosi asseconda in questo modo l’incredulità e lo spirito critico del giornalista-personaggio Besozzi. In che modo? Effettuando una contro-descrizione, produttrice di controinformazione o riverità riguardante la salma del cinema realista (e neorealista). Come Besozzi, non crede alla prima verità. Né alle prime impressioni. Comprende, e fa comprendere, che si tratta di uno «stimolo surrogato» e non «naturale». Pensandola diversamente, sposta la sua di testa e quella dello spettatore, scoprendo che dietro l’apparenza di realtà c’è dell’altro: la menzogna, politica. Il procedimento logico rosiano è, sin dal principio, abduttivo. C’è un risultato ben diverso da quanto risulta dal minuzioso verbale in cui si trascrivono alcuni particolari e se ne ignorano completamente altri che tuttavia non sfuggono alla macchina da presa. Ad esempio, come già era evidente dalle foto scattate all’epoca, «il sangue che fuoruscì dalle ferite, anziché scorrere verso il punto più basso del corpo supino, saliva verso l’alto» . Il risultato su cui Rosi insiste è che Giuliano è sicuramente morto, ma non come dicono i carabinieri. Su questo almeno non sussistono dubbi. La regola nuova, politicamente molto grave, creata a partire dal risultato, non è né automatica né scontata: che lo Stato e le forze dell’ordine siano capaci di ordire piani delittuosi e di mentire sistematicamente all’opinione pubblica. Né lo è il caso: la morte di Giuliano che rientrerebbe in questa fattispecie di reato.
L’esempio della sequenza inaugurale di Salvatore Giuliano mostra come la sagoma del bandito, in quanto contorno di una messa in scena, assuma una forte connotazione iconico-simbolica. Tale sequenza fa comprendere inequivocabilmente come quella rappresentata da Rosi non sia che una ex realtà sfuggita alla verità.
Perché l’immagine filmica – scrive Bertetto – lavora necessariamente e costitutivamente sull’apparenza, sulla cosiddetta impressione/illusione di realtà, sul mostrare qualcosa che non è il mondo, ma sembra il mondo. Il film si dà dunque come processo che insieme prospetta un’immagine come illusione di realtà, come proiezione del mondo fenomenico e nega strutturalmente e in forme diverse l’impressione prospettata. È un’apparenza di mondo che si rivela piuttosto come mondo dell’apparenza, o copia (differente) del mondo dell’apparenza. È qualcosa che si mostra come doppio per poi rivelarsi come altro dalla duplicazione e altro dal mondo esterno. […] L’autosmascheramento è la demistificazione del dispositivo della messa in scena: cioè il processo di ritrovamento di qualcosa di diverso, se non di contrario, di quello che appare. È un processo che attiva un’interpretazione che demistifica, o meglio decodifica. Lo smascheramento è la messa in atto di un’interpretazione che rovescia le apparenze. Questo significa che dentro l’immagine simulacro è presente una interpretazione in atto e dunque una produzione di senso quanto mai rilevante. E insieme l’autosmascheramento sollecita e produce lo smascheramento attuato dallo spettatore, che non è evidentemente lo spettatore ingenuo […] della vulgata Lumière .
L’autore del primo film diretto su Portella della Ginestra è più che mai consapevole dello «smascheramento» posto in essere dalla «immagine simulacro» del corpo-morto di Giuliano. Non teme il realismo. E riproduce, esercitando il proprio diritto di dubitare, la rappresentazione pregressa di una realtà. Quella della polizia giudiziaria, dei fotografi, dei cinegiornali, che pretendeva di essere una riproduzione fedele, ma, evidentemente, non lo era. La macchina da presa nel suo film non documenta ma riflette, ripercorre, analizza. E dissente. Lungi da ogni suggestione documentaristica, rispetto ai cinegiornali dell’epoca, fa trent’anni prima quello che Bertetto attribuisce, non impropriamente in quanto allievo di Rosi, a Oliver Stone in JFK (JFK – Un caso ancora aperto, 1991): «La scoperta della (presunta) verità dell’evento è legata a una simulazione che raddoppia il raddoppiamento […] costituisce un falso che simula non l’originale, ma la copia filmica […] dell’evento originale […] simula un raddoppiamento della copia dell’evento che vuole testimoniare e interpretare» .
Sia il film di Rosi che quello di Benvenuti agiscono dunque sul piano iconico, del distacco critico e dell’astrazione, non su quello immediatamente riproduttivo. Ciò risulta più chiaro in Segreti di Stato, in cui l’autore evita accuratamente di ricostruire in maniera “realistica” gli eventi. O i cinegiornali. Egli sceglie ogni sorta di rielaborazione iconica che dia l’idea dell’artificio e dell’interpretazione: i disegni monocolore e contornati su carta o sulla lavagna, i plastici, lo specchio, le fotografie-carte, oggetti come gli accendini o le sigarette disposti su un tavolo del carcere o sulla scrivania del professore in modo da restituire le posizioni di chi sparò a Portella . E sin dall’incipit del suo film su Portella esibisce, lavorando come spiega Casetti a proposito della sequenza wellesiana del cinegiornale News on the March di Citizen Kane (Quarto potere, 1941), l’«enunciazione simulata» . Benvenuti insomma marca le distanze dalla realtà ostentando la ricostruzione cinematografica dei fatti compiuta dai cinegiornali come pratica discorsiva menzognera. Le differenze tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato riguardano il particolare approccio iconologico ai fatti rievocati. Il grado, questo sì: diverso, di astrazione. Si può dire che Rosi scelga icone di tipo realistico, dinamiche, quelle che Eco definisce icone «temporate» . E provvede, anche con interventi antifrastici, come si è visto, a contraddire lo stesso effetto di realtà che tali icone dotate di movimento evocano nello spettatore. Benvenuti invece predilige icone fisse, in grado di ingenerare un effetto maggiore, o alternativo, di straniamento. Alla base dei differenti procedimenti adottati in Salvatore Giuliano e in Segreti di Stato, ci sembra essere il rapporto istituito sempre da Eco già richiamato nel capitolo precedente tra «ratio facilis» (Rosi, il quale ha comunque alle spalle il neorealismo e Visconti) e «ratio difficilis» (Benvenuti, che appartiene a una generazione successiva e prende le mosse da altri modelli di rappresentazione cinematografica). Un perfetto esempio di rapporto tra queste due «ratio» lo si trova all’interno dello stesso Segreti di Stato, quando il perito fa notare all’avvocato che i bossoli ritrovati a Portella, a causa delle loro dimensioni, generano “confusione”: il calibro 9 è più piccolo del 6,5. Il calibro e il rapporto sono inversamente proporzionali («ratio difficilis»), contrariamente alle impressioni («ratio facilis»). Sui contadini in festa erano stati sparati e ritrovati proiettili calibro 9 (dalla squadra di Salvatore Ferreri, infiltrato nella banda Giuliano dall’ispettore Messana), scambiati “facilmente” per 6,5 (effettivamente quelli della squadra di Giuliano). Ragion per cui, conclude il perito: «Il proiettile calibro 6,5 è stato collocato in mezzo agli altri solo per confondere le idee».
Questi diversi indirizzi di stile dimostrano più che mai come il metodo politico-indiziario prescinda da soluzioni formali preordinate, oltre che da premesse di “genere”, adattandosi alle esigenze, pur contrastanti, di messa in scena e in inquadratura orientate, comunque, alla acquisizione progressiva di una verità occultata. Sempre a proposito di Salvatore Giuliano e Segreti di Stato, su cui giova insistere, il problema della conoscenza si riflette a livello di costruzione del racconto. Se si tiene ben presente quanto appena osservato sulle corrispondenti soluzioni, si capisce la necessità nel film di Rosi, rispetto alla linearità di quello di Benvenuti, di una struttura organizzata secondo la logica non didascalica dei flashback, onde arginare l’impatto realistico delle immagini. Infatti se «il film ci mette di fronte a una successione di “questo + questo + questo ecc. “, una successione di rappresentazioni di un presente, gerarchizzabili solo in fase di montaggio» proprio Salvatore Giuliano, secondo Eco, si basa «esclusivamente sull’uso intensivo di flash-back […] per dislocare la successione temporale di un’unica azione e dare il senso di una verità dei fatti che si delinea confusamente, sotto forma di tappe di una inchiesta, e in modo contraddittorio» .
Inoltre in Salvatore Giuliano il fatto che la scena finale (la scarica di lupara) potrebbe essere benissimo una scena iniziale – e viene posta alla fine proprio per precise ragioni polemiche, per mostrare appunto che la storia non è finita, che tutto ricomincia come prima – non è un fatto casuale, ma dipende da una precisa volontà formativa del regista che ha assunto di proposito una visione polemica dei rapporti temporali, e ha piegato un certo schema strutturale alle esigenze di un discorso impegnato .
Rosi così, dentro il suo modo di concepire e costruire un film politico-indiziario, riesce ad affermare non il contenuto della ricerca per immagini ma la ricerca come contenuto: Apparentemente – ha scritto ancora Eco sul film – si tratta di buona scuola realista, ma lo spettatore si avvede ben presto che in questa successione di “fotografie” della realtà c’è qualcosa che lo disturba, e l’uso continuo del flash-back: a un certo punto non ci si rende più conto della fase a cui si trovi la vicenda, e si ha l’impressione che per capire bene il film occorrerebbe conoscere già da prima tutti i fatti meglio di quanto non li si conosca. La verità è invece che, sulla storia di Giuliano, sulla vera natura dei suoi rapporti con la mafia o con la polizia, o della polizia con i carabinieri, o di Giuliano con Pisciotta, e così via, i fatti non li conosce esattamente nessuno. Ci accorgiamo così che la particolare tecnica narrativa interviene a titolo di vero e proprio “contenuto” del film e ne costituisce la dichiarazione più importante: allo spettatore viene raccontata una storia oscura da un autore che è vittima della stessa oscurità e che non vuole ingannare lo spettatore chiarendogli fatti che chiari non sono, ma gli vuole lasciare intatto ogni dubbio. Il regista pare dunque lasciare che il suo film sia montato dalla situazione, anziché montare la situazione attraverso il film .
Sulla necessità del flashback rosiano e sulla sua originalità a livello epistemologico ha concordato sostanzialmente Zambetti: Rievocazione e attualità, passato e presente coesistono nel film, per cui si potrebbe dire che Rosi si esprime usando i verbi al presente storico. Tutta la struttura narrativa dell’opera, infatti, è tesa a rompere un certo ordine cronologico dei fatti per sostituirgli l’ordine logico che li raccorda l’uno all’altro e che bisogna scoprire e seguire se si vuol giungere alla vera comprensione e al necessario giudizio. Non è che si indaghi sui fatti del passato solo partendo, crocianamente, da un interesse presente: è dal presente che ci si vuol rendere conto, valendosi anche del passato. La preoccupazione di Rosi, si può dire, è quella di allontanare il presente – per osservarlo meglio, con maggiore distacco – e di avvicinare il passato – cogliendone la continuità nel presente – in un andamento pendolare della narrazione che ottiene appunto l’effetto di far restare nel vivo dei fatti e, al tempo stesso, di distaccarsene quel tanto necessario per porsi in una posizione di più lucido giudizio. Così, un episodio che può avere le risonanze vibrate quanto superficiali dell’attualità viene subito ricollegato alle sue radici più lontane, mentre di un dato ormai acquisito agli studi e alle documentazioni in argomento si cerca di illuminare soprattutto le proiezioni più recenti.
Basta fermare brevemente l’attenzione sull’andamento narrativo del film per rendersi conto dell’efficacia di questo metodo. È pur vero che quei salti indietro nel tempo e quei repentini e apparentemente immotivati ritorni al presente possono in un primo tempo ingenerare confusione nello spettatore e rendergli faticosa la lettura del film, ma – a parte il fatto che proprio quella fatica lo costringe a stare, diciamo, più attento e lo mette quindi sulla strada dell’impegno critico necessario – è facile dimostrare che c’è in ognuno di essi una ragione, la risposta ad un’esigenza espressiva connessa al carattere coinvolgente-distanziante dell’opera. Va notato, ad esempio, l’originale impiego del flash-back, a cui normalmente si ricorre partendo sempre da un personaggio che ricorda o da una voce fuori campo che rievoca, per chiarire, attraverso i precedenti, gli sviluppi presenti nella vicenda e gli stati d’animo dei personaggi, senza sconvolgere sostanzialmente l’ordine cronologico dell’esposizione. In Salvatore Giuliano, invece, è proprio questo ordine che si vuol rompere, per cui i personaggi restano del tutto estranei al flash-back: ad effettuare l’operazione è, dichiaratamente, l’autore ed il suo intento non è quello di riandare ai precedenti per rendere più comprensibile quanto sta avvenendo, ma, al contrario, di aprire nuovi interrogativi, allargare il campo di indagine, rendere tutti i fatti “contemporanei” per farne oggetto globale di interpretazione e di valutazione da parte della coscienza critica collettiva .
Eppure non solo in questi due ma in tutti i film di cui si è parlato finora, qualunque fosse l’evento, reale o immaginario, l’inchiesta restava lo strumento principe di un ritorno “riveritiero”, “converitiero” e “avveritiero” alla realtà: per restituire quote sempre maggiori di verità agli spettatori e alla società civile bisognava strapparle alla menzogna, alla reticenza, al rifiuto delle responsabilità. A queste condizioni l’inchiesta in senso lato si prestava, al cinema, a essere il luogo geometrico di inchieste d’ogni genere. L’inchiesta giornalistica, l’inchiesta statistica, l’inchiesta scientifica, l’inchiesta poliziesca, l’inchiesta giudiziaria, le inchieste delle Commissioni parlamentari o quelle delle pubbliche amministrazioni concorrevano, all’interno del discorso cinematografico che si stava profilando, a far luce sulla realtà e sul reato concomitante. O sulla realtà intesa come territorio privilegiato del reato, rendendo indispensabile l’impiego congiunto degli strumenti di indagine specifici delle varie tipologie d’inchiesta. In che altro modo affrontare gli aspetti meno chiari di una realtà tenuta nascosta, così come il reo nasconde o nega il reato? Non era un’impresa facile venire a capo di una sorta di realtà-reato fitta di vicende, trame, connivenze e compromessi occulti, domande prive di risposte, problemi insoluti. La sfida della verità consisteva nell’immaginare, tentare di indovinare, ipotizzare dietro i «panni sporchi» gli affari sporchi. Dietro la cronaca, la politica. Dietro il privato, il pubblico. Dietro i cittadini, le istituzioni. Dietro i delitti comuni, i segreti di Stato. Ma per ottenere validi risultati e innescare questo processo conoscitivo, il film stesso si era trasformato sin dagli anni Cinquanta in un meccanismo di accertamento della verità, di ricerca di verità intralciate, contorte, all’apparenza semplici ma nella sostanza molto più organizzate e coerenti nella loro sconcertante e insostenibile novità.
Come si può dunque pensare a una conclusione? La parola “conclusione” non si addice alla metodologia che abbiamo finora cercato di descrivere. Non si può pensare di concludere un qualcosa che per definizione deve rimanere aperto. Il confronto sul piano rappresentativo appena accennato tra Salvatore Giuliano e Segreti di Stato va esattamente nella direzione di “concludere” questo libro riprendendo in mano un evento storico per valutarne i numerosi, controversi e dilazionati effetti cinematografici in Italia. Insomma cominciando tutto daccapo, su scala relativamente ridotta, con un caso esemplare. Un caso persistente di «deficit di verità» , come lo storico Casarrubea, sulla scorta di documenti a cui è stato possibile accedere solo negli ultimi anni , ha chiamato l’eccidio di Portella della Ginestra. Su cui Sciascia era stato molto esplicito: La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere .
Anche Dolci si era espresso negli stessi termini: «Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage» . Le parole di Dolci, un auspicio rivolto a Benvenuti affinché realizzasse Segreti di Stato, ci riportano al nocciolo della questione. Forse ciò che è accaduto quel giorno a Portella non è stato soltanto la «chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica», ma anche un po’ la «chiave» d’accesso per un’ipotesi che abbiamo voluto chiamare di riverità, converità e avverità sulla microstoria del cinema italiano che, come si è detto nel capitolo precedente, si è a più riprese intrecciata con la macrostoria dell’Italia repubblicana. Ciò spiegherebbe perché a occuparsi in tempi e modi diversi di Portella non sono stati soltanto gli studiosi di storia contemporanea o le Commissioni parlamentari d’inchiesta ma vari film, nove contando solo i principali titoli italiani , comprendendo anche i progetti di film che non si sono poi concretizzati. Infatti parlare di film non è esatto. Film sono quelli che si vedono o che almeno sono stati realizzati. I nove in questione invece non sono diventati tutti “film”. La maggior parte sì, dal 1948 al 2003: La terra trema (Episodio del mare) di Luchino Visconti uscito nel 1948, I fuorilegge (1950) di Aldo Vergano, Morte di un bandito (1961) di Giuseppe Amato, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, Il sasso in bocca (1970) di Giuseppe Ferrara, Il caso Pisciotta (1972) di Eriprando Visconti, Segreti di Stato di Paolo Benvenuti. Di questi però, alcuni sono mutati strada facendo rispetto ai progetti originali (in primo luogo La terra trema, ma anche I fuorilegge), conservando talvolta il titolo di partenza (La terra trema) o dovendo, di necessità, cambiarlo (I fuorilegge). Comunque sia, si sono fatti, a differenza degli altri due che non sono mai entrati in produzione: Giuliano il bandito, di cui si ignorano sia l’anno (comunque precedente a I fuorilegge) che il regista, e Portella delle Ginestre, ideato da Giuseppe De Santis e scritto da Felice Chilanti nel 1956. Quanto a Morte di un bandito, se ne sa talmente poco, nonostante i pochissimi documenti ministeriali che ne attestano l’esistenza, che si potrebbe persino dubitare che sia mai stato girato. Nove “film” per modo di dire. Comunque sia, un numero nettamente superiore a quello di film riguardanti altri oscuri e complicati misfatti nazionali, come la strage di Piazza Fontana nel 1969 o la figura, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Perché nove film fatti, da fare o da non fare su Portella della Ginestra sono davvero troppi per essere una pura coincidenza. Specialmente se ci si sofferma, per una volta, a considerarli tutti insieme sotto questo comune denominatore, scoprendo così che il cinema italiano si sarebbe interessato alla strage dal principio. Dal 1947, con La terra trema, poi diventato l’anno successivo La terra trema (Episodio del mare) perché la terra che aveva tremato a Portella della Ginestra veniva accantonata nel capolavoro viscontiano a favore di pur impeccabile trasposizione de I Malavoglia di Verga.
di AntonGiulio Mancino